giovedì 16 dicembre 2010

el rubio

Non si può non amare il rubio.
Il suo candore, il suo appassionarsi anche al peto d'una zanzara è commovente.
L'indomani avrà dimenticato il peto e la zanzara e si farà sedurre da una nuova farfalla. E così per ogni giorno della sua vita.
Labile e amabile, un pò come l'Idiota perpetuo di Dostoevskij.
Gli piace la vita, godere, battersi, farsi sbattere tra i flutti del Dharma.
La schiuma della tempesta lo travolge come lo spumante.
E' giocondo, solare intrinsecamente.
In lui risiede un entusiasmo che sembra non possa abbattersi.
Non si arrende mai.
I suoi infiniti difetti, la sua banalità, la sua ingenuità, il fatto che è un donnaiolo, la sua confusione eterna, la sua brama insaziabile di piaceri, di mondanità, se da una parte ne fanno un comune conformista, dall'altra ne rivelano la vitalità genuina e profonda e quindi tragica.
E' il protagonista di una commedia dal finale ovvio.
E' fortunato, piace alle donne.
Egli lo nega con sincera modestia, ma intanto le ragazze gli piovono tra le braccia una dopo l'altra.
Moldave, mulatte, equadoregne, rumene.
Dice che coltiva, coltiva, e a furia di coltivare raccoglie qualche frutto.
Ma è una mezza verità, perchè la verità è che il chico rubio gusta, gusta mucho.
Fotte le donne più belle del mondo.
Io invece pettino le bambole della mia viltà.

Tuttavia il rubio non è mai sereno, è sempre tormentato da un'ansia che lo dilania nel profondo.
Sempre febbrile, sempre alla ricerca di qualcosa da mettere nel vuoto della sua anima.
Si fa suggestionare facilmente da libri spazzatura come la Profezia di Celestino e ingenuamente crede che la lettura di un libro possa cambiargli la vita.
Sono tutte stronzate vecchio rubio!
Non credere alle teorie e alle favole di nessuno, o presto o tardi ne resterai deluso.
Ognuno orina la sua verità sul mondo e sulla felicità, ma ogni teoria è solo un sentiero scuro e senza garanzia.
Percorri il tuo di sentiero, costruendolo dal nulla.
La felicità, questa parola fatata e seducente, questa breve eiaculazione dell'anima, esiste solo come accidente benevolo, mai come dottrina da consegnare alla massa.
La felicità è solo un'eiaculazione.

Nell'ora in cui scenderò nella fossa dovrai benedirmi con una risata e battezzando di seme il piacere e il ventre di una fanciulla. Ricordami sempre con un dito di spumante, laido dannunziano.
Così deve andare? Amen! E così sia.

Meursault

Meursault è l'uomo del paradosso assoluto.
Nega e accetta l'assurdo allo stesso tempo.
Lo nega perchè accettando di essere condannato a morte senza difendersi decide di liberarsi di tutto, della vita e quindi dell'assurdità della vita.
Al contempo col suo silenzio, con il suo no definitivo tiene una condotta assurda.
Meursault è quindi fedele all'assurdo.
Per essere fedele all'assurdo non può che immolarsi ad esso.
In ciò Meursault assomiglia a Socrate.
Socrate si immola per la Verità, Meursault per niente.
Il suo sacrificio è senza senso.
Tutto è senza senso, perciò una cosa vale l'altra: il silenzio, l'amore inutile di Maria, il cane di Salamano che scompare, l'indignazione del pubblico ministero, il funerale della mamma.
Si può prendere qualsiasi direzione perchè tanto tutte portano all'assurdo.
Il cinismo è la via più breve.
Il prete vorrebbe fargli uscire almeno una lacrima.
Ma il suo cuore è un deserto.
Non esce niente, salvo un urlo straziato.
Questo grido, che rompe un silenzio quasi ininterrotto, rappresenta l'unico brandello di umanità che Meursault concede al lettore.
Gridare è umano, tacere è assurdo.
Eppure nell'assurdo c'è qualcosa di commestibile.
Meursault se ne accorge.
Ancora una notte lo separa dal boia.
E in quella placida notte d'estate tutti i profumi della vita vengono a sedurlo ammantati nella veste del ricordo.
Il cinico cede al piacere.
Ma Meursault non è Faust, anzi è l'anti Faust.
Faust vuole essere salvato, una lacrimuccia può commuovere Dio.
Meursault no.
Tutte le fragranze della vita sono lì, nude, ma rimangono sterili, senza conseguenza.
Meursault se ne lascia inebriare, ne gode, senza la disperazione di chi sta per perdere tutto.
Per questo Meursault è assurdo.
Perchè nell'equazione assurda del suo cinismo riesce a vivere e a morire -e a godere-senza disperazione.
Chi invece resterà dopo di lui, dopo che il boia avrà eseguito la condanna, dispererà perchè si opporrà all'assurdo che tutto concede e tutto toglie.
Solo chi spera può disperare.
Bisogna immaginare Meursault felice.
Non è poi così assurdo.

martedì 2 novembre 2010

clinamen

Il taccuino è nella mente, minuto per minuto, secondo per secondo, litro per litro.
Il romanzo è nella testa, già composto da un'eternità, libro mai scritto sul fondo del mare.
Che bisogno c'è di scrivere un libro quando la propria vita è un romanzo, il migliore dei libri possibili?
Gli occhi luccicanti di una o due volpi nascoste nel sottobosco, il loro sgattaiolare fulmineo e suicida su una strada provinciale, la profezia di un pittore immorto.
La strada è scritta, la storia pure. Con un litro di vino nello stomaco si diventa Sandokan di sé stessi, anzi il Salgari dell'apparente banale. Ma mai niente è soltanto banale...
E così me ne vado a spasso col buon Antoine. Ad Anzio vediamo un vecchio che parla da solo al vento mentre passa un treno. A casa di Peppino Antoin vede una donna dai pedalini bianchi che si nasconde e gli viene un attacco di angina pectoris. Nei pressi del Pantheon, mentre mastica un putrido panino da Mc donald's gli si rompe una capsula di un dente finto. Dice che viene irradiato, che gli irradiano i denti, il cuore, le palle. Chi? Il Vaticano...
Più tardi ti becco e.d. e la sua amica che salvano un cane nero come la notte, di notte, al bivio di Lanuvio.
Forse solo e.d. può salvare cani neri come la notte, di notte, ai bivi di Lanuvio.
La barba rossa, i denti bianchi di fuori, i vestiti sgargianti, la faccia da minorato.
Per questo è adorabile, perchè è un minorato dal cuore immane (e forse anche immune)...
Lo saluto alzando la mano e lui, col suo cuore immane e immune, senza neanche riconoscermi, mi ricambia il saluto.

Tornato a casa mi sciacquo la cappella e ripenso ad Alessandra.
Chissà se la rivedrò.
Quella sera compro due pizze, qualche birra e una bottiglia di spumante. Sono le undici, la ragazza è stanca. Begli occhi verdi, bel sorriso, dolce, bello sfintere.
Tossisce e fuma una sigaretta. Le manca un dente. Ma è bella lo stesso.
A novembre compie ventuno anni...chi ero io a ventuno anni? Uno spermatozoo.
Il frigo è rotto perciò mettiamo la bottiglia di spumante a rinfrescare nello sciacquone del water.
La ragazza vuole uscire. A me gira la testa, voglio solo baciarla e scoparla.
"Dai usciamo! Portami al mare!"
Ma sono le undici, è tardi, domani devo lavorare, Dezi...ma chi se ne fotte?
Fuori fa freddo, c'è un umido insopportabile.
La ragazza mi pistona mentre guido e le vengo in mano.
In cielo splende una luna malevola, pesta , rancida...il mare è lì, ai suoi piedi.
"Andiamo, voglio toccarlo!".
Torvaianica, buon vecchia fogna. Senza di te mi sarei già ammazzato.
L'odore salmastro del mare, la notte, le onde, l'ululato vago di qualche creatura.
Ci sediamo sulla sabbia nera, sporca e umida.
A che serve parlare? Tutto è già stato detto, ogni parola pronunziata.
Rabbrividisce e la stringo. Poi rabbrividisco io. Lei se ne accorge e ride.
Ridiamo. C'è ancora una bottiglia di spumante che ci attende. Nello sciacquone del water.
In Romania le donne sono semplici, non come le italiane con la puzza sotto al naso.
Qualche molare in meno, tante belle pompe. Seni piccoli, come chicchi di caffé. Da succhiare con delicatezza.

Lo spumante è quasi fresco. Ridiamo, ridiamo, senza un cazzo di perché.
Alla fine crolla sul divano, la bocca spalancata. Le do una carezza, finisco di guardare quella fica di shakira mentre sculetta al grido "loca!" e le butto una coperta addosso.
Notte bimba meretrica. Che la vita ti sorrida, come tu hai fatto con me.

Le palpebre quasi mi si chiudono, sono le due passate.
E.d. che salva cani neri ai bivi di Lanuvio, la bimba rumena che mi regala il suo corpo e il suo sorriso, le volpi suicide e i presagi del pittore immorto, il mare putrido di speranza coronato da una luna gialla come la sifilide, la bottiglia di spumante che si rinfresca nello sciacquone di un cesso.
Forse ho vissuto la vita intera e non me ne sono accorto.
Come tutti i caduti, precipitando, tutte le costellazioni mi passano accanto, sfiorandomi, alcune salutandomi, come e.d., altre indifferenti, come sagome vuote della risacca.
Questa notte è un maelstrom, una vasta vertigine intorno al vuoto, il movimento di un oceano infinito intorno a un buco nel nulla...e, da una botola lassù, sto precipitando in una caduta senza direzione, infinitupla.
Non so volare, non so volere.
E così, infine, mi accorgo di non essere mai stato io.
Sono un presagio. Sono una volpe dagli occhi d'argento che sbuca dal bosco per farsi ammazzare. Sono una bottiglia di spumante che prende fresco nello sciacquone di un cesso in attesa che due amanti fugaci si ricordino di brindare mentre fissano una luna gialla in un'estasi moribonda e senza senso...

giovedì 21 ottobre 2010

il doppio

Le attuali tecniche di riproduzione dell'informazione, di tutte le informazioni possibili, aprono uno scenario salvifico inquietante, rendono l'uomo e ogni cosa una sorta di immortale, lo trasformano sub specie aeternitatis da uomo in dio.
L'informazione è l'anima del mondo.
La digitalizzazione e (in misura minore) la genetica sono di fatto la nuova parusia, la promessa di una reincarnazione definitiva qui e ora, senza più il pericolo della temuta corruzione dei corpi e della materia.
Se le informazioni, come l'energia, non possono morire, non possono essere distrutte e possono trasmettersi all'infinito, è chiaro che l'immortalità diventa a portata di mano.
Il piano tecnologico ha soppiantato quello metafisico.
Non c'è più bisogno di una metafisica, di scomodare Dio, di superare le barriere della impura materia quando l'immortalità si può ottenere nell'aldiquà, con la semplice fisica.
Una volta occorreva ingravidare per, in parte, reincarnarsi nella nuova vita; nella prole ogni genitore proiettava sé stesso oltre sé stesso, nella speranza della generazione e contro la morte.
Oggi tutto questo sta per essere superato.
Siamo un insieme di informazioni digitalizzabili, perciò basta un supporto, magari un hard disk di qualche tetrabyte, per reincarnarci nella simulazione assoluta.
Niente sfugge. Solo informazioni.
Basta solo estrapolarle e riprodurle...
Typler, coerentemente, fa di tutto ciò un paradiso, anzi, l'unico paradiso possibile perchè negli oltremondi della religione non ci crede neanche lui.
Così finalmente tutto è perfetto perchè sottratto alla morte.
Epurata dalla caducità, la nuova vita irraggia l'unica verità possibile, ossia quella della tecnica.
Afferrato il segreto dell'immortalità (l'informazione digitale) finalmente l'uomo può proclamarsi nuovo dio.
Prometeo si è liberato...

Eppure all'apice della performance tecnologica, all'apice della informazione assoluta, è come se un cancro ci stesse divorando dall'interno, lavorando contro di noi, sovraccaricandoci di un eccesso di informazioni.
Accerchiati dall'informazione, braccati da essa in ogni momento della vita, ne proviamo infine nausea, rigetto, come un veleno che ci viene somministrato e introiettato senza che lo vogliamo...
A furia di sviscerare la materia abbiamo scoperto dei nuovi atomi, senza capire che ogni scoperta è un omicidio.
E ogni scoperta esige la sua vendetta.
Sottratti alla morte esigiamo la morte.
Ingozzati di informazioni le vomitiamo per liberarcene.
Pervenuti alla povera verità che noi stessi siamo un'accozzaglia di informazioni e che possiamo essere persino riprodotti e simulati infinite volte, ci viene una salutare voglia di suicidio, quasi a voler ripristinare un'originalità perduta.
Ogni simulazione è un'esecuzione capitale di ciò che chiamiamo l'originale.
Ma per fortuna niente è identico, nemmeno due gemelli.
Nonostante tutti gli sforzi, lasciamo ovunque tracce d'imperfetto -virus, errori, lapsus, germi, catastrofi- come le impronte di un apprendista maldestro.

Di fatto ogni informazione è fine a sé stessa: tende alla sua conservazione e riproduzione. Si autonomizza, come fanno i figli, alla faccia dei genitori.

Effettivamente tutti questi poveri malati d'eternità, dopo aver seppellito i fantasmi della metafisica, della religione, dell'idealismo, del materialismo, della psicoanalisi, sembrano avere ancora spazio e voglia per accogliere i nuovi spettri digitali: c'è un'ebbrezza insopprimibile in ogni odore di salvezza.
Eppure l'apprendista stregone si scopre nuovamente triste: il suo esperimento (e con esso il suo desiderio) gli è scappato di mano.
Il suo doppio, figlio dell'informazione digitale, gli sorride al di là dello schermo, perfetto e incorruttibile.
Ma quel sorriso non è il suo.
E alla fine, a ben vedere, l'apprendista non sa che farsene di un altro sé stesso.
Il doppio sfugge sempre, come l'ombra sfugge al corpo che la proietta.
L'ombra si beffa di noi...

lunedì 18 ottobre 2010

trompe l'oeil

La grande questione filosofica era: "Perchè c'è qualcosa piuttosto che nulla?"
Oggi la vera questione è : "Perchè c'è niente piuttosto che qualcosa?"
L'assenza delle cose da sé stesse, il fatto che esse non abbiano luogo pur dando l'impressione di accadere, il fatto che ogni cosa si ritiri dietro la propria apparenza e non sia dunque mai identica a sé stessa, in ciò consiste l'illusione materiale del mondo.
E questo resta in fondo il grande enigma, che ci fa sprofondare nel terrore e da cui ci proteggiamo mediante l'illusione formale della verità.
Pena il terrore, dobbiamo decrifrare il mondo, e quindi annientarne l'illusione originaria.
Non sopportiamo né il vuoto né il segreto né la pura apparenza.
Perchè mai dovremmo decifrarlo, al posto di lasciarne irradiare l'illusione come tale, in tutto il suo splendore?

L'identificazione del mondo è inutile.
Bisogna cogliere le cose mentre dormono, mentre si ecclissano.
Non essere sensibili a questo grado d'irrealtà e di gioco, di malizia e di spiritualità ironica del linguaggio e del mondo, significa di fatto non essere capaci di vivere.

L'identificazione del mondo è inutile.
Anche il nostro volto non può essere identificato, poichè la sua simmetria è alterata dallo specchio.
Vederlo quale è sarebbe una follia, poiché non avremmo più segreti per noi stessi, e dunque saremmo annientati per trasparenza.
Lo stesso vale per qualunque oggetto, il quale giunge a noi definitivamente alterato.
Tutte le cose si offrono dunque senza la speranza d'essere altro che l'illusione di sé stesse. E va bene così.
Fortunatamente viviamo in base a un'illusione vitale, a un'assenza, a una non immediatezza.
Fortunatamente nulla è presente nè identico a sé stesso.
Fortunatamente la realtà non ha luogo.

La principale obiezione alla realtà è d'altra parte il suo carattere di sottomissione incondizionata a tutte le ipotesi che si possono fare su di lei.
La realtà è una bagascia...

giovedì 7 ottobre 2010

sragione

"I sistemi assiomatici e deterministici hanno perduto la loro consistenza e rivelano un difetto intrinseco. Questo difetto non è tale in realtà: è una proprietà del sistema [...]. L'Accidente non è una eccezione nè una malattia dei nostri regimi politici [...]: è la conseguenza naturale della nostra scienza, della nostra politica e della nostra morale. L'Accidente fa parte della nostra idea del Progresso.
L'Accidente è diventato un paradosso della necessità: esso possiede la fatalità di quest'ultima e l'indeterminatezza della libertà. E' il ritorno dell'angoscia degli atzechi, sia pure senza presagi nè sogni celesti. La catastrofe diventa banale e irrisoria, perchè l'Accidente, in fin dei conti, non è che un accidente" (Octavio Paz)

C'è un paradosso della razionalità moderna e borghese sulla morte.
Concepire quest'ultima come naturale, profana e irreversibile costituisce il segno stesso dei "Lumi" e della Ragione, ma entra in acuta contraddizione con i principi della razionalità borghese :valori individuali, progresso illimitato della scienza, dominio della natura in ogni cosa.
Neutralizzata come "fatto naturale", la morte diventa sempre più uno scandalo.

Come la società, normalizzandosi, fa nascere alla sua periferia i pazzi e gli anormali, così la ragione e il dominio tecnico della natura, approfondendosi, fanno nascere intorno a sè l'errore, l'accidente, la crisi.
La crisi diventa insopportabile perchè la ragione, che pretende di essere sovrana, non può nemmeno pensare ciò che le sfugge; allo stesso tempo la crisi è insolubile perchè non esistono più dei rituali di propiziazione o di riconciliazione: così l'accidente, come la morte, è assurdo, punto e basta. E' un sabotaggio. Un demone maligno è all'opera per far si che questa macchina tanto bella si guasti sempre.
Così questa cultura razionalista è affetta, come nessun altra, da paranoia collettiva.
Per gli antichi ciò non esisteva. Niente sfuggiva al loro sistema di scambio. Persino le catastrofi naturali e la morte erano intellegibili nel quadro delle loro strutture sociali, mentre da noi la morte è paralogica, è la paranoia della ragione, i cui assiomi generano ovunque l'inintellegibile assoluto, la morte come resistenza assurda e malvagia d'una materia, d'una natura che non vuole sottomettersi alle leggi "oggettive" in cui è stata cacciata.
D'onde il fascino per la catastrofe, l'accidente, l'attentato: è la ragione stessa, braccata dalla speranza d'una rivincita universale contro le sue stesse norme e i suoi privilegi.

martedì 5 ottobre 2010

fatuum

Se considero attentamente la vita che gli uomini conducono, non vi trovo niente che la differenzi dalla vita degli animali.
Gli uni e gli altri sono gettati incoscientemente nelle cose e nel mondo; gli uni e gli altri si divertono a intervalli, fanno quotidianamente lo stesso percorso organico; non pensano al di là di quello che pensano e non vivono al di là di quello che vivono.
Il gatto si crogiola al sole e si addormenta.
L'uomo si rotola nella vita, con tutte le sue complessità e poi dorme.
Nè l'uno nè l'altro si liberano della legge fatale di essere come sono. Nessuno cerca di sollevare il peso di essere.
Solo i mistici cercano di scrollarsi di dosso la legge animale.
Costoro, anche se in modo assurdo, tentano effettivamente di negare la legge della vita, rotolandosi nella luce o nell'ombra e attendendo la morte senza pensare ad essa.
Cercano, anche se immobili; anelamo, seppure in una cella senza luce; desiderano quello che non conoscono, sebbene nella rinuncia, nel martirio auto inflitto, nel dolore imposto.
Tutti noi che viviamo come animali con una maggiore o minore complessità, attraversiamo il palco come figuranti che non parlano, contenti della vanitosa solennità del tragitto.
Cani e uomini, gatti ed eroi, pulci e geni, giochiamo a esistere, senza pensarci (perchè i migliori pensano solo a pensare) sotto la grande quiete delle stelle.
Gli altri, i mistici della rinuncia e del sacrificio, perlomeno sentono -con il corpo e la quotidianità- la presenza magica del mistero.
Sono liberati perchè negano il sole visibile; sono pieni perchè si sono svuotati del vuoto del mondo.
Non sarò mai un mistico. Al massimo sarò, in versi o in prosa, un impiegato del pensiero.
Sarò sempre, nel misticismo o senza misticismo, servo delle mie sensazioni e dell'ora di averle.
Sarò sempre, sotto il grande baldacchino azzurro del cielo muto, il paggio di un rito incompreso, finchè la festa non finisca e infine il meriggio non si schiuda alla sera.

lunedì 13 settembre 2010

Yunia

Nubi gravide di tempesta abortita, nere come il mio umore, morte come un pezzo del mio cuore...
Il temporale indugia, sadico come una nausea che strazia lentamente senza culminare mai...
Al ritorno dal niente osservo con la coda dell'occhio i grappoli d'uva nera intrecciati sulle vigne di via retarola, quasi mi viene voglia di raccoglierne uno.
A due passi dal carcere, un ragazzo a torso nudo, forse rumeno, cammina masticando uva.
Inutile come un ramo spezzato galleggio nel niente, il sibilo del frigo unico compagno della mia angoscia.
La mano, indolente, vacilla sotto il peso della noia di vivere...
Fino a qualche ora fa ero felice.
Yunia, distesa sul mio corpo, mi dava teneri morsi sul petto con i suoi dentini bianchi.
Abbracciati sotto una palma respiravo l'odore dei suoi capelli, accarezzavo la sua pelle di velluto con la punta delle dita.
Davanti al mare chiudevo gli occhi pregando una divinità assente che ci trasformasse in statue di imperitura beatitudine.
Maledico il tempo cui tutto si piega.

Ancora qualche ricordo sparso per la memoria, frammento levigato come una conchiglia bruna sepolta nell'arenile bianco della coscienza...
La mattina è lucente e calda, potrei andare al mare con Fede e Janexi, invece decido di restare con Yunia.
E' il compleanno della mamma e vorrebbe farle un regalo. Usciamo.
Madido di sudore mi aggiro per le tiendas di Cienfuegos in cerca di un pensierino.
Alla fine compro un set di tazzine da caffè a forma di cuore e dei biscotti per il fratellino di otto anni.
Verso l'una cerco un tassista nei pressi del boulevard.
Si fa avanti un negro gigantesco grondante sudore, dopo una breve trattativa ci accordiamo per sette pesos.
Dopo qualche minuto Tyson torna dentro una fiat 126 in condizioni che definire pietose sarebbe un eufemismo.
Entriamo nella scatoletta e partiamo diretti a casa di Yunia.
Le mani del negro sono enormi, mi chiedo come diavolo riesca a entrare in quella 126...Certe cose possono accadere solo a Cuba...
Accende una radio con dentro un nastro e parte un abominevole raggaeton.
Durante il tragitto osservo la strada, mucche e cavalli brucano l'erba ai margini della foresta.
Passiamo davanti un carcere, a confronto quello di Velletri sulla cisternense sembra un resort a cinque stelle.
Arrivati a destinazione Tyson non ha il resto per i venti pesos che gli porgo, così dobbiamo fare altri dieci km per trovare una tienda che ce li cambi.
Cambiati i soldi la 126 si spegne, io passo al volante, Tyson spinge e la scatoletta riparte grintosa.
Finalmente arriviamo. Dico al negro di farsi trovare lì per le cinque.
Cammino con Yunia per un tratto di strada non asfaltato facendo lo slalom tra fango, escrementi di cavallo e pozzanghere di acqua piovana.
Scorgo due pavoni. Caprette dal pelo scuro brucano piante tropicali.
Poco distante compare un uomo. << Ese es mi papà>> dice Yunia.
Gli andiamo incontro e mi accoglie con una stretta di mano calorosa e un sorriso gentile.
Ha qualche anno più di me, magro, biondo, occhi azzurri: sembra Terence Hill quand'era giovane!
Arriva anche la mamma di Yunia, una brunetta di carnagione olivastra con un volto che pare segnato dalla fatica.
Mi ringraziano per il regalo e mi invitano a seguirli. Due cagnolini ci saltellano addosso.
Andiamo a trovare la nonna in una catapecchia lì vicino. La povera donna, sulla settantina, due acquosi occhi azzurri e tre denti, si regge su una specie di stampella a forma di trespolo.
Si presentano anche una zia con gli occhiali amante della cucina italiana, un cugino storpio e sdendato coi baffi che a momenti mi stritola la mano e i due fratellini di Yunia, di otto e tredici anni.
La zia è la più loquace: ha due figlie sposate che vivono a Milano di cui una trabaja in un ristorante.
Il cugino storpio coi baffi ad un certo punto mi grida allargando le braccia che <<Esta casa es tu casa!>> e io raggelo sorridendo.
Poi parliamo di cucina, di pasta alla carbonara e ravioli, il papà di Yunia mi invita a cucinare a casa loro.
Dopo un pò ci trasferiamo nell'abitazione dei genitori, la mamma si mette a lavare delle stoviglie, Yunia si va a rinfrescare nel bagno con un secchio d'acqua, io mi adagio sul letto della sua cameretta.
Non ci sono porte. Il bagno ha una tendina e manca l'acqua.
Il letto è piccolo, la rete sfondata e il lenzuolo è un pò sporco.
Sulla parete davanti al letto è appesa una foto della mamma quando aveva 20 anni, su un'altra il poster di un cantante cubano molto in auge presso le adolescenti, un certo Louis Fonsi.
Su una piccola credenza di legno sono sparse matite da trucco, profumini e qualche ninnolo della piccola. Nessun armadio. Da un attaccapanni basso pende qualche vestitino sgargiante e succinto e una borsetta.
Sul letto mi fanno compagnia un orsacchiotto spellacchiato e un altro animaletto di pezza.
Appena fuori, vicino la finestra di legno senza vetri, una nidiata di pulcini dentro una gabbia stride in continuazione. Giunge anche il non lieve fetore degli escrementi dei volatili.
La mamma compra i pulcini per rivenderli quando diventano polli.

Chiudo gli occhi.
Povera bambina. Forse ormai è abituata a questa vita e neanche ne sente il fastidio. O forse si.
I pulcini, le capre, la puzza...mi chiedo come faccia a dormire.
Mi chiedo perchè sono finito lì, in quella casa, cosa mi abbia spinto ad assaggiare quello spaccato di povertà cubana invece di starmene a mare con un drink in mano.
Immagino che non rivedrò più quelle oneste facce di contadini.
La loro sporcizia, causata dalla povertà, mi ripugna, mi duole ammetterlo.
Mille domande mi balenano per la testa.
Se la portassi in Italia? Me la soffierebbe via il primo fighetto con un suv?
E io, la amo davvero? O amo soltanto venirle sul ventre e sulla schiena?
E lei, dopo dieci giorni, può davvero essersi innamorata di me o gioca soltanto a fare la principessina che ha trovato un babbeo che le compra borse e scarpette e che non esita a elargire qualche pesos in più per la sua povera famiglia?
Posso ipotecare il destino di una donna di venti anni?
Posso ipotecare il mio destino al suo?
Sono quasi le cinque. Lei ha i capelli bagnati. E' bellissima. Perchè devo pensare?
La stringo al petto con tenerezza, come nei miei sogni più belli...

Come un ramo spezzato caduto in un lago nero creato dall'alta marea della nostalgia, scorro senza più volonta, effimero pezzo di legno.
Scorro leggero, ramo spezzato, sotto palme dimenticate.
Scorro cieco e finito, anima mutilata, mormorio invisibile oltre i grandi mari perduti.
Scorro inutile, senza una ragione, vago bagliore in lontananza, languido sospiro di ciò che fu, scorro lento, pigro, scorro nei vortici e per i declivi che mi aspettano, vado verso l'ombra e verso la luce, fratello del mondo, vado verso l'amore e verso l'abisso, figlio del Caos e della Notte, ricordando sempre quel giglio che un giorno il destino volle regalarmi... Yunia.


venerdì 2 luglio 2010

l'univers c'est moi

La rinuncia è liberazione. Non volere è potere.
Cos'altro mi può dare il mondo che la mia anima non mi abbia già dato?
E, se la mia anima non me lo può offrire, come potrà offrirmelo il mondo, se è con la mia anima che mi accosto ad esso?
Potrei andare a cercare la ricchezza in Oriente, ma non la ricchezza dell'anima, perchè la ricchezza della mia anima sono io, ed io sono questo, così come sono, con o senza Oriente.
Viaggia chi è incapace di sentire, il cielo interiore non muta con le latitudini.
Siamo tutti miopi, sopratutto verso noi stessi.
In fondo, nella nostra esperienza della terra vi sono solo due cose: l'universale e il particolare.
Descrivere l'universale significa descrivere ciò che è comune ad ogni anima umana e a tutta l'esperienza umana - il cielo vasto, con il giorno e la notte che in esso e da esso si succedono; i mari, le montagne con la loro tremula estensione, che custodiscono la maestosità dell'altezza nel segreto della profondità; i campi, le stagioni, le case , i volti, i gesti; l'abito e i sorrisi; l'amore e le guerre; i sentimenti, finiti e infiniti...
Nel descrivere l'universale tutti mi comprendono, l'idioma primitivo e adamitico funziona.
Ma quale linguaggio frammentario e babelico dovrei parlare (e parlo, col rischio di passare per un demente) allorchè dovessi descrivere il particolare, ad esempio l'ascensore del Tribunale di Velletri o i pantaloni di Peppino o il dialetto bestiale dei Genzanesi?
Queste cose sono accidenti superficiali; si possono sentire e descrivere con l'informe, non con l'universale.
Quello che nel laido ascensore del Tribunale di Velletri è universale è la meccanica che facilita il mondo.
Quello che nei pantaloni macchiati di Peppino è eterno è il gioco colorato degli abiti, linguaggio umano che crea finzione sociale che a suo modo è una nuova nudità...
Quello che nella pronuncia locale è universale è il timbro bestiale di persone che vivono in un ibrido mostruoso di neo-modernità e residui rurali...la diversità di tutti gli esseri, la successione variegata dei modi...
Eterni viandanti di noi stessi, non esiste altro paesaggio se non quello che siamo.
Non possediamo nulla, perchè non possediamo neppure noi stessi.
Non abbiamo niente perchè non siamo niente.
Verso quale universo potrei tendere la mano?
L'universo non è mio: sono io.

lunedì 14 giugno 2010

venus

Nel corso dei mesi ho avuto modo di conoscere meglio "l'animale da prateria", una sanguisuga di provincia ipocrita e superficiale a cui piace essere corteggiata da un "intellettuale" come me mentre si fa sbattere da ex calciatori, ballerini brasiliani e altra gente del suo livello.
Ma, se ho idealizzato questa donna mediocre, la colpa è solo mia: è un errore che troppo spesso mi sono concesso, è l'errore conosciuto come innamoramento.
Frequentando una persona i lineamenti della stessa diventano più chiari, se ne intravedono i pregi come i limiti e i difetti, e se la coscienza (al pari del grillo di Pinocchio) ci vorrebbe vigili e critici verso l'altro, nel caso di una donna, un'erezione camuffata da sentimento (cos'altro è l'amore in fondo?) mette a tacere ogni coscienza...
L'opinione comune vuole che questo inganno della coscienza sia inevitabile, che non si abbia altra scelta se non quella di sbattere la testa contro il muro dell'amore e che nemmeno l'esperienza possa servire a qualcosa in questa palude seducente ("al cuor non si comanda" si dice...).
Accanto a questa vulgata, sta la constatazione (anch'essa frutto dell'opinione comune) che se si smettesse di andar dietro all'amore (alla fica di una donna, aggiungo io) la vita diventerebbe arida, senza entusiasmo, una sorta di frigida attesa senza più senso.
Che ognuno faccia quel che vuole.
Per quel che mi riguarda andare dietro all'amore, al profumo delle gonnelle, è tempo perso: e sopratutto è tempo perso illudersi di trovare "l'amore" tra le cosce aperte delle donne (lì c'è solo piacere).
Le vulve sono solo succosi frutti da assaggiare quando il caso ce li schiude davanti, e non c'è una sola ragione per cui si debba amare di per sé colei che ce ne fa dono solo perchè ce ne fa dono (per godere lei stessa del resto)...sinallagma di piaceri, nient'altro.
L'amore dell'uomo verso la donna è sempre un'erezione camuffata da sentimento, un istinto mascherato volto all'eiaculazione.
L'amore è pertanto quella graziosa forma di riconoscenza verso colei che ci ha fatto godere col suo corpo, riconoscenza che arriva sino alla demenza del matrimonio, della gelosia, della fedeltà (esclusività) tra i sessi, etc.
Il desiderio è ramingo, come la nota Venus Vagabunda di Lucrezio...

Soares

Soares (pseudonimo di Pessoa) vive tutto a metà, non riesce nè ad amare completamente i propri sogni di evasione e desiderio nè a voltare per sempre le spalle alla quotidiana schiavitù della sua piccola e grigia esistenza di impiegato contabile in una sartoria.
Resta inerte, schiacciato dalla coscienza della sua impotenza a vivere pienamente, tanto nel desiderio quanto nel disgusto.
Vorrebbe esiliarsi dalla vita ma non ne è in grado: perciò decanta l'esilio, il sonno, il sogno, la morte...
Tutta la poesia del libro è un inno a questa mancata liberazione, a questa sconfitta della volontà che non fa altro che umiliare sé stessa per preservarsi meglio dall'oblio...
Si sarebbe tentati di definire Soares un romantico, ma i suoi sogni si sgretolano tutti in un attimo, sempre per colpa di una stanchezza atavica, i suoi desideri si sciolgono come cera, nascono troppo deboli per sopravvivere...
Un romantico fallito? No purtroppo (ma poi perchè mai purtroppo?) perchè Soares fallisce ancor prima di diventare un romantico, abortisce i suoi sogni e i suoi desideri ancor prima di ergerli a propri baluardi (come fa il romantico)...partorisce sogni solo per affogarli appena nati...
Un nichilista? Nemmeno, il nichilista spregia la vita e poi, se è veramente tale, toglie il disturbo, si congeda lanciandosi dal balcone o penzolando con un cappio al collo: non così Soares, il quale non spregia la vita in sé ma solo la sua...il mondo esterno gli è indifferente , quasi estraneo, l'unica realtà che conosce si svolge nel raggio di un chilometro: Rua dos Douradores, i lampioni, la finestra della stanza, l'ufficio, il cameriere della locanda, il titolare della sartoria, la pioggia , il vento, i registri, il Tago, la curva dei monti, i parchi pubblici, la Baixa, la spiaggia, l'ora del tè...queste sono le uniche cose che per lui hanno un senso.
Soares non è nichilista perchè è legato morbosamente alla sua esistenza di impiegato, fedele ad ogni sterile gesto del suo vivere quotidiano: disprezza sè stesso perchè è attaccato a tutte queste futili abitudini, a ogni infima particella di pulviscolo che galleggia nell'aria che respira...e non riuscendo a superare questa contraddizione, vive a metà, dolosamente...
Che cosa è allora Bernardo Soares?
E' la coscienza, inizialmente e apparentemente inquieta ma in fondo e alla fine acquietata, del fallimento.
E' il sentimento zoppicante che alla fine si ritrae come la schiuma del mare, è la bruma notturna che si schiude sull'apparire, è un adagiarsi senza più volere...

Ogni uomo ha inscritto nel suo destino il fallimento, figlio della caducità e della fragilità del suo essere.
Ma nessuno è così onesto da riconoscere questa semplice verità.
L'insulso orgoglio umano esige sempre la lotta, la competizione, l'opera, il risultato, la vittoria...per questo tutti si affannano a mascherare la loro essenza che li vuole effimeri come tutte le cose.
Soares va controcorrente. La sua abiura redime la viltà.
Soares è un'eroe perchè è un fallito. Perchè ha il coraggio di dirlo...

venerdì 11 giugno 2010

rondini

Da questa terrazza, da Poggi d'oro, si è tentati di ritenersi dei.
L'estate è la stagione in cui risorgono le energie, i veri ormoni sono i colori: Pissarro e Van Gogh probabilmente non erano solo uomini, erano nervi scoperti, sensibili alla impercettibile declinazione del rosa e dell'azzurro terso sovrastante campagne e uliveti.
Ogni anno risorge quest'esplosione di colori, si ha l'impressione che vivere non serva a nient'altro che a godere di essi; che non serva nient'altro all'infuori di un bosco, una campagna o un paesaggio con in fondo il mare. E' fantastico...
Tutto il misticismo dei saperi ctoni e delle culture cicliche riposava su questo incanto, sulla resurrezione della natura e dei suoi colori, per cui nulla andava perso in seno alla madre terra, e attraverso il gelo e la morte dell'inverno andava ricomponendosi la bellezza sempre vergine del mondo, culminante nella estate.
Il ciclo regolava le vite e dava forma ai fenomeni: in tal senso tutto torna e niente è perduto...

Guardando una formica pensiamo ad una specie, non ad un'essere distinto dai suoi simili, una specie sempre conforme e chiusa nella sua dimensione univoca e specifica: insomma per noi una formica vale l'altra.
Non così pensiamo a noi stessi: ogni uomo, a cominciare da ciascuno, pensa sé stesso e gli altri non come specie -univoca e dai componenti indistinti- ma come singolarità unica e differenziata, le cui "differenze" dall'altro o dagli altri costituirebbero addirittura il tratto peculiare dell'essere umano...
Operazione arbitraria? In fondo si. Dall'alto tutti gli uomini appaiono come formiche, perciò la loro asserita diversità è, per così dire, solo "affar loro", insignificante rispetto alla madre che incessantemente li genera e li sotterra.

L'uomo non è il fine del mondo, il figlio privilegiato della terra, nè ha un padre chiamato Dio che lo osserva e lo premia.
E' il frutto del caso ed è fratello della più minuscola formica.
Tra di essi c'è solo una differenza di forma, quantità e modalità: la sostanza è la stessa, materia mortale...

Le rondini attraversano il cielo senza chiedersi perché. Ogni perché è superfluo.
Solo colori radiosi e cinguettii.
L'incanto sembra interminabile.

martedì 8 giugno 2010

postruosità

Dorian Grey (ancora tu? ma non ti avevo pregato di accomodarti altrove? E per sempre possibilmente...) ingenuamente si scandalizza perché qui non è possibile lasciare commenti.
Visto le porcherie che scrive, lettere infami, scadenti, prive di alcun valore letterario, umano, intellettivo, era il minimo che potesse aspettarsi.
Lasceresti imbrattare il tuo diario dalla merda di un uccello? io no.

L'ennesima lunga, noiosa e sterile lettera di un fantasma...
Parole, parole, apologie: che nausea! Scrivi qualcosa di intelligente perdio!
Qualche panto-novelas (la mamma che piange, lui che corre all'ospedale con la patta ancora aperta), un materialismo inetto e becero (carbonare, buste di arance, alimentatori per computer scassati) per giustificare la sua mediocrità, concetti-sterco (ma è fargli un complimento attribuirgli concetti), specchi convessi che riflettono la sua stessa immagine morta, immagine di un Dorian Grey dei Landi.

Un cadavere imbellettato che "profuma" come tutti i morti imbalsamati (ma che a ben vedere puzza come tutti i morti).

Grazie per le cene senza invito (innaffiate con un decente vino altrui) umbratile fantasma, ma non sono sufficienti a "redimerti" dalla tua falsità (la tua seconda spina dorsale?)

L'ossessione quasi faraonica verso il suo corpo marcio e consumato da stupefacenti gli fa credere che non lo si possa che amare...povero illuso.

Ma di che sto parlando? Di un fantasma? Suvvia, non ho mai creduto ai fantasmi...e poi Dorian Grey è nessuno, lacerato il dipinto, distrutto lo specchio nemmeno i frammenti si ricorderanno più di lui.

mercoledì 19 maggio 2010

pour le plaisir

Dissi la verita'
Prima di tutti
a coloro che amai
Nessuno lo merito' : per questo dovettero odiarmi

Infine abdicai
e giunsi nel deserto
Non mi benediro' mai abbastanza

La speranza e' la forma normale del delirio
Tormento?
Macche'! Non vedi che non so bere ne' fumare?

Dal magazzino della pazzia deriva un po' di vitalita'
Uno squillo di Noemi e parto
brividi sulla nuca e il cazzo duro come pietra

Noe' avrebbe dovuto affondare la sua barca
e guardare le candide colombe
librarsi libere e mai tristi nel cielo

Si vive nel falso finche' non si e' sofferto
Poi si entra nel vero...e si rimpiange il falso

Gettare nella spazzatura tutte le Bibbie
Smettere con un sorriso di cercare
Smettere di ribellarsi troppo o non si avra' piu' forza se non per la disperazione

Nausicaa Ti trovero'!

E' una bella prigione il mondo?
Un vero amore non sa parlare
Per questo il mondo tace

martedì 18 maggio 2010

abscheulich

E se godessi...
di una torva e magica epilessi!

Di gelsi e messi;
Ah Dioniso come mi sei mancato
avrei dovuto farti a pezzi
con un blues lieve e ben consumato

Sacerdotesse di Deimos:
Che noi siamo ancora vivi, questa e' la nostra colpa;
ora tenue ora rosso
senza battesimo e puro fino all'osso

Redentore della causalita'!
Sibilla!
Solo il canto sulla terra
consacra e celebra...

Nel petto sono le stelle del destino
auriga oziosa
ebra e cieca
conduci senza posa
ai Mari Morti

Grido di Sileno
Ti sento dovunque
Guai se ti coglie la nostalgia della terra...
La sfinge seppe
percio' tacque

Misteriosi amplessi!
Parlatemi dunque
Ditemi perche' presso di Voi non dimora felicita' irrevocabile!

Vi diro' il vero figli del caso:
per tornare innocenti
dovrete immolarvi
e morire piu' di una volta

Portata dal canto serale delle cicale
l'oscurita' divenne Bellezza:
Odi?
...il muto vibrare di stelle ignote...

lunedì 17 maggio 2010

addio Egitto

Venerdi' prossimo, se quel porco di Allah vuole, saro' di nuovo a casa.
Fine dell'avventura in Egitto.
Questa breve avventura naturalmente non e' servita a nulla.
A parte il blog, le letture...e finire GTA IV, non ho trovato niente d'interessante.
Le belle palme, i deliziosi fiori di gelsomino e ibiscus sono le uniche cose di cui la mia memoria si ricordera' con piacere.
Scrivendo cio' non provo assolutamente alcuna tristezza o delusione, sono solo lucido e razionale.
Questi giorni di quasi totale prigionia mi hanno solo dato la possibilita' di pensare di piu', pensare e scrivere per vincere la noia e la calura di questo posto alieno e vano in cui sono capitato, per fortuna temporaneamente.
Aborrisco piramidi, deserto, moschee e centri commerciali; tutti immischiati in un'orgia pazzesca e orrida.
Il libero vagare con cui colmo molte delle mie giornate oziose mi da' una gioia incommensurabile: invece questo languire senza scopo ne' senso in una landa polverosa e arida mi e' insopportabile.

L'altro giorno ho portato da bere in una pentola a un povero pastore tedesco legato sotto il sole ad una catena e senza un goccio d'acqua, c'erano circa 45 gradi.
Ho commesso una violazione di domicilio, ma ho avuto coraggio e ne sono fiero.
Ho imparato a darmi pacche sulle spalle da solo.
Se i proprietari del lupo o qualcun altro mi avesse "redarguito", credo che avrei potuto copirlo...
Oggi il lupo non c'e'...chissa', forse i mostri umani si sono inteneriti.

Corrado e' un osso duro, a settant'anni sopporta solitudine, sottosviluppo e noia: certo, in cambio di una bella retribuzione... tuttavia credo che anche lui si sia stufato dell'Egitto, la sua collina sul Golfo del Cilento e' immensamente piu' bella di qualsiasi oasi...

Insomma: ancora una volta niente, come immaginavo.
Sento il vigore di un leone adulto.
Il mappamondo mi guarda con la sensualita' di una vergine che vuole godere.
A trentacinque anni non so chi sono e che ne sara' di me.
Ma la vergine dallo sguardo seducente sembra invitarmi a fottermene, una volta per tutte.

martedì 11 maggio 2010

don giovanni

La figura di Don Giovanni e' stata raffigurata con tratti diversi, ma tutti riconducibili a un tipo umano fino a ieri respinto dalla morale generale.
In Mozart spicca il falsario, il bugiardo, l'ingannatore.
In Molière l'uomo senza scrupoli, l'ateo cinico e razionale simile a quello partorito da De Sade.
In Kierkegaard l'attenzione si sposta dall'uomo alla scelta dell'uomo: non l'uomo in quanto tale suscita riprovazione ma la sua scelta, perche' scegliendo di non legarsi a nulla il libertino cade nella noia e nel non senso; e a questo punto Don Giovanni fa pena, l'angoscia che ne emerge non e' dissimile da quella del ligio conformista.
Insomma: pur essendo padrone della propria esistenza, il destino di Don Giovanni -intessuto di noia, cinismo e falsita'- non puo' che sfociare nell'infelicita' e nella riprovazione sociale e morale.
La storia conosce Don Giovanni.
Nell'antica Roma era il ricco crapulone che si abbandonava all'episodio orgiastico.
La lunga censura del Cristianesimo produsse la strega (la seconda donna Don Giovanni dopo la baccante?) e il rogo.
Nel rinascimento il libertino assunse i panni del potere: del papa dissoluto e del ricco mercante o prestatore di danaro con interesse.
Idem nel settecento: il monarca assoluto e lo svogliato e mondano aristocratico di corte ne furono gli epigoni.
Nell'ottocento Don Giovanni fu visto nel dandy, nell'esteta romantico che fugge dalla meschina societa' puritana in cerca di una liberta' assoluta che il mondo sembra negargli.
Nel novecento abbiamo un'esteta arrogante e pretenzioso che si trastulla con un po' di potere, denaro e belle donne: Gabriele D'annunzio ne incarna a perfezione il tipo, ma anche il geniale Dali'.
L'anima di Don Giovanni ha percio' percorso i secoli incarnandosi un'infinita' di volte: da baccante a strega, da papa a dandy, fino ad oggi...

A questo punto chi ha letto sin qui si domandera' lecitamente che volto ha oggi Don Giovanni, da chi e' meglio rappresentato.
E la risposta e' presto data: da Fabrizio Corona e dai suoi infiniti cloni che fuoriescono come merda dalle scuole e dagli infimi luoghi d'aggregazione della massa giovanile.
Questo esemplare moderno di Don Giovanni -Fabrizio Corona, il tronista della De Filippi, il teppista anarcoide del Grande Fratello, il cantante rap di colore alla Snoop doggy dog, che racchiude in se' tutte le piu' infami e ignobili qualita' umane: avidita', cinismo, falsita', prepotenza, violenza, esibizionismo becero, negazione di ogni umilta' e pieta'- questo esemplare, dicevo, e' diventato desiderabile socialmente...mentre prima era deprecato.
Perche'? Perche' agli occhi della ottusa massa e' un vincente: donne, lusso, divertisment sono la sua patente sociale, gli unici titoli di prestigio che ormai vigono per l'uomo-massa, per il consumatore moderno...
La morale, non solo quella cristiana, ha perso.
La storia e' cambiata, sotto il segno di questo novello De Sade, il Don Giovanni moderno.
Ma De Sade, almeno lui, il diritto al "male" (solo letterario peraltro) se lo guadagno' onestamente con la prigione, il manicomio a vita, lo spettacolo atroce della ghigliottina, l'emarginazione sociale.
I Don Giovanni moderni devono soltanto trovare un buon manager, al pari dei calciatori, e apparire in tv; con qualche tatuaggio, parolaccia e precedente penale si e' gia' a meta' strada verso l'olimpo.

lunedì 10 maggio 2010

quia absurdum

A volte provo a immaginare Dostoevskij o Kierkegaard al giorno d'oggi.
Cosa avrebbero pensato? Come avrebbero reagito?
Cosa avrebbe scritto la loro penna?
Avrebbero indugiato nelle loro stanze se perdonare o condannare gli uomini?
Abbiamo scoperto che il mondo e' "innocente": che uno tsunami e' meno colpevole non solo di un Bush o di un Ahmadinejad qualsiasi, ma persino del nostro vicino di casa.
Anzi, uno tsunami o un terremoto sono quasi desiderabili a certi uomini e al prodotto di certi uomini: guerre, inquinamento, plastica, benzina, bombe atomiche...veleni lenti oppure definitivi, in grado di cancellare l'ultimo filo d'erba sulla terra.

Non posso immaginare un mondo dove non vengano piu' alla luce geni o eccezioni; eppure e' la realta': l'epoca moderna e' la fine del genio, come artista, poeta, scrittore, pensatore, compositore.
Solo lo scienziato e' possibile e riverito dalla modernita': e solo se dal suo sapere si puo' dominare o lucrare in qualche modo.
La scoperta scientifica si afferma solo se vende o se consente una possibilita' di dominio.
E la scienza non e' affatto al servizio del bene e di tutti, ma solo di chi puo' permettersela; mentre e' invariabilmente contro gli altri viventi (gli animali) e l'ecosistema: li usa come mezzi, come cavie, senza pieta'.
La distruzione e la prevaricazione delle vite, degli animali, della flora, e' diventato il sistema di dominio e sostentamento della modenita' di stampo occidentale: eppure popoli che subirono genocidi e umiliazioni come i pellerossa e gli indios, vivevano in pace e armonia con il mondo; non avevano bisogno delle Stato, delle macchine, di estrarre petrolio e oro e nemmeno degli shuttles e degli acceleratori di particelle.
"Quando avrete abbattuto l'ultimo albero, quando avrete pescato l'ultimo pesce, quando avrete inquinato l'ultimo fiume, allora vi accorgerete che non si può mangiare il denaro."
(Toro seduto)
Neanche la fede in Dio e' piu' possibile presso il moderno.
Mai Dio e' stato cosi' assente e in silenzio come oggi.
Si badi: per Dio intendo l'onesto e tribolato credente... si e' estinto anche lui?
Come avrebbero potuto continuare a credere Dostoevskij o Kierkegaard?
Non si puo' credere quia absurdum e andare a letto con buona coscienza...non piu', non oggi.
Forse neanche Pascal oggi avrebbe scommesso su Dio, visto cio' che gli uomini possono fare e fanno.
Ecco una domanda che ci porrebbe un ipotetico personaggio dostoevskijano oggi:
"Escludendo la paura del dolore fisico, non riesco ancora a trovare un solo motivo logico per cui non dovrei gettarmi da questo balcone. Sareste voi moderni in grado di indicarmene uno? Uno che non sia Dio?"

sabato 8 maggio 2010

zingara

Zingara indomita, puttana vai per il mondo,
padrona di Te, libera e senza lenone.
Oggi qui, domani chissa'...
La tua patria e' ovunque, la tua casa e' di tutti.

Dove vai?
Cosa cerchi?
Di chi e' la tua anima?
Del miglior offerente?
Del vile danaro degli uomini?
Quando avra' fine il tuo vagare?

Che farsene d'un corpo senza anima
o di un'anima senza corpo?
La beatitudine si puo' comperare,
ma non la salvezza.
Gli uomini scelsero:
beatitudine senza salvezza; e corpo senz'anima.

Zingara indomita, ribelle per natura
il prete penso' che a casa a pascere figli saresti tornata una volta rimosse le catene;
ma si sbaglio': e t'imbarcasti senza ritorno.

Nessuno sfugge al destino: cosi' t'insegnaron a vivere;
e cosi' il destino fu il primo dei tuoi panni a cadere.
Nuda ai miei occhi mi sembrasti una Venere;
poi finito l'amplesso, oblio e cenere.

Zingara indomita, maledetta da Dio e dalle donne
col Tuo nome vergasti le mura di Babilonia
Dove sei? gridano gli uomini
e nel Tuo seno di madre perdono lieti il loro seme

Dove sei, orfana di Dio?
Anche tu vaghi senza meta?
Lontano dal mondo
Con Te voglio giacere.

giovedì 6 maggio 2010

dépravé

In questa Italia misera e meschina manca una figura onesta e forte che non tema l'infimo giudizio di cattolici, borghesucci di sinistra e destra, benpensanti ipocriti e libertari da quattro soldi.
Manca cioe' l'intellettuale integrale e integerrimo, come furono Pasolini, Calvino, Sciascia; l'artista scevro dal lucro come Van Gogh; il poeta temerario come Carducci.
Abbiamo invece solo caricature untuose e asservite al sistema, come quel rancido avanzo di Vittorio Sgarbi.
La sinistra non esiste, e' stata comprata per due lire da Berlusconi al (e dal) libero mercato.
In questo scenario orribile manca persino la figura del vero libertino (secondo i dettami del costume e della morale imperante chiaramente) ...cioe' di colui che ha la buona coscienza della propria condotta socialmente riprovata...
Questo libertino, di stampo ottocentesco, e' superato per sempre: la tv e i videogiochi lo hanno superato...

In una societa' come la nostra, ove piu' nulla e' considerato riprovevole, grazie alle leggi del mercato, allora solo la buona coscienza puo' e deve essere riprovata, perche' e' il segno che ogni coscienza si e' assuefatta allo spettacolo...
Non perche' la societa' (o il diritto naturale della Chiesa) gli ha accordato questo o quel capriccio, ma perche' non ne e' piu' in grado lui di formularne uno: per questo il libertino si e' estinto, lasciando il posto ai miserabili parvenus del toga party...
Del resto la societa' dello spettacolo ci ha gentilmente inebriato con i suoi doni : gli Aldo Busi si
trastullano nelle trasmissioni della De Filippi e preti e papi si alternano ai perizomi delle veline.
Tutto e' mischiato in un'orgia raccapricciante, ogni cosa e idea e' uguale alle altre...il regno dell'uguaglianza formale e sostanziale e' realizzato.
E il senno, il nostro senno, che fine fa? Lo vedete voi da qualche parte? O non si sara' smarrito, tra uno spot e l'altro, in mezzo alle mutande delle veline?

Anni fa mi recavo con qualche amico all'allora trasgressiva discoteca di Roma "Mucca Assassina".
A quei tempi andare in posti del genere era considerata una perversione, frequentare locali con omosessuali, baldracche e travestiti non si addiceva a specchiati avvocatucoli e commercialisti di sorta.
Pertanto, quei quattro borghesucci senza spina dorsale dei i miei amici mi raccomandavano terrorizzati di tenere il becco ben chiuso, affinche' nel "paese" non trapelassero le nostre deplorevoli imprese, consistenti al massimo nell'aver rimediato qualche fugace fellatio da un'anonima baldracca o trans...
A me veniva (e viene ancora di piu' oggi!) da ridere e provavo quasi pena per il terrore di quei cari quattro idioti...
Oggi andare alla "Mucca Assassina" e' come recarsi al bar, anzi, se non ci si va si passa per retrogadi.
Mi sembra ancora di udire la sana e fragorosa risata dell'integerrimo depravato che e' in me.

martedì 4 maggio 2010

l'ultimo nichilista

Carmelo Bene e' l'unico vero nichilista che ho mai riconosciuto in vita mia.
Vivido come una ferita aperta e fedele fino alla fine alla sua vocazione d'annientamento...a cominciare da se' naturalmente.
Un nichilista che crea non senso distruggendo e spolpando arte, linguaggio e senso.
L'attore inteso come vano automa-esecutore del testo e' abominio.
Il teatro non deve comunicare; e l'incomunicabile passa attraverso l'osceno.
Paradosso: l'osceno redime... perche' e' l'unico comunicante possibile.
Teatro e vita coincidono: per questo l'attore non e' giammai altri se non se' stesso.
Il teatro non e' altro se non il grido inaudito della sconfitta a cui gli spettatori stizziti si tappano le orecchie.
Anche la follia non e' qualcosa di gratuito: bisogna conquistarla con fatica, non si diventa Amleti per caso...
Certo: chi si vota all'annientamento suscita pena...
Ma forse il nichilista e' solo un allergico alle menzogne e al bailamme della civilta' in generale; forse e' solo colui che ha lo sguardo piu' lungimirante di tutti, che vede dove gli altri non sanno e non hanno il coraggio di vedere; che scorge il rantolo del vecchio nel gracchio del bambino appena nato; che vede la landa deserta dove ora trionfa la formica umana...
E a furia di vedere "oltre", il presente diventa nero e si diventa maestri del dispregio.
E chi dispregia alla fine e' esecrato.
Ma essere esecrati e' una volutta' cosi' raffinata che pochi sono in grado di ambire.
E' la tentazione del nichilista...

A Peppino

Caro Peppino,
perso e vigile solo nell'oblio;
cercai il tuo sguardo ma era smarrito;
una sigaretta dopo l'altra calcava all'infinito il posacenere;
sorriso e cenere e tenebre, e poi di nuovo barlume e buio, instancabilmente...
Al mare, con le caviglie nella sabbia notturna, trovammo ristoro, io dall'inedia, tu dai fantasmi.
Gli altri, i sempre assenti per antonomasia.
Arezzo, un buon cattivo maestro,
duro come la pietra e fragile come il vetro.
Vino o birra, il ventre gonfio e l'occhio che vacilla;
Dove stiamo andando? A godere risposi.
Guardammo le stelle e fummo felici.
Leggere Rimbaud ad alta voce,
condividere e onorare la poesia, fonte suprema.
Cucinare insieme con allegria;
un po' di pepe, aglio, prezzemolo e vino rosso.
Parlare di Dio e con Dio, l'ultimo assente per antonomasia.
Uscito dal bordello cercavo una cicca per ricordarmi di Te.
Una buona scusa per venire a casa tua.
Una partita a scacchi e uno scaracchio dalla finestra.


"Elle est retrouvée.
Quoi? - L'Eternité.
C'est la mer allée
avec le soleil."
( Rimbaud )

sabato 1 maggio 2010

En passant

Attribuire alla massoneria un ruolo centrale nel dispiegarsi della storia e' assurdo.
E' un campo minato dove si perde la bussola e dove ogni tentativo di comprensione della realta' si smarrisce in vuota speculazione.
La realta' storica e' cosi' complessa, piena di variabili, che ricondurre tutto -tutti i principali eventi storici e non solo- alla massoneria e' pura demenza, come ricondurre tutto a un dio fittizio. Cio' che ci sfugge e' e sara' sempre di piu' rispetto a quel poco che inesorabilmente apprendiamo: e anche quel poco che apprendiamo e' quasi sempre di seconda o terza mano.
L'ambizione al potere assoluto, al controllo totale sulla realta' e sugli uomini, e' stata avanzata cosi' tante volte nella storia che la massoneria, qualunque cosa essa sia, non e' che uno dei "pezzi" sulla scacchiera, in gioco con tutti gli altri.
A volte i "pezzi" fanno alleanze, si spartiscono la torta; altre volte si combattono: per questo ad esempio lo Stato borghese, il fascismo, il comunismo perseguitarono i massoni facendogli chiudere le logge o arrestandoli; per questo la Chiesa cattolica li scomunico'.
E nulla esclude che alcuni massoni sui generis, come Garibaldi o Marx, siano diventati tali per sincere aspirazioni libertarie e per sfuggire alle persecuzioni politiche.
Tornando all'oggi non bisogna impegnarsi troppo per capire che il pianeta e' governato dal capitalismo, dalle banche, dalle agenzie di rating.
La verita' su "tutto" non la sapremo mai.
Peggiorare la nostra ignoranza confondendoci le idee non serve a nulla.
Accontentiamoci di comprendere quel che vediamo, se ne siamo ancora capaci.

venerdì 30 aprile 2010

lucianino

Il figlio del Perozzi, Lucianino, non e' un mostro; ne' e' perfido, nel senso comune dei superficiali.
Lucianino e' solo lucido e freddo come la lama di un coltello.
E la lucidita' e' sempre spietata, perche' non antepone il dover essere del desiderio o della morale all'infima realta' dell'essere.
Ne' a Lucianino rimane altra scelta per non soccombere o diventare un pagliaccio come il padre e i suoi amici se non opporre la sua lucidita'.
E' la sua unica arma.
Perde umanita', per cosi' dire, per non perdere umanita'...
Cio' non produce il cinico ma il censore.
E i quattro geniali pagliacci, gli "amici miei", lungi dall'essere "umani", sanno bene che la speranza e' morta, che l'universo e' vuoto: e per questo lo riempiono con la loro volutta' e il loro sadismo.
Sadismo che colma la noia d'esistere, che scuote corpi gia' morti.
E davanti alla lucidita' di Lucianino anche il pagliaccio per eccellenza, Tognazzi nei panni del Conte Mascetti, deve cedere: e da' suo malgrado un dieci e lode all'analisi contenuta nel diario del ragazzino.
Lucianino non frigna ne' scalcia, come vorrebbero i pagliacci della superficie; la sua rivolta e' lucida come il bisturi; poche parole fredde e secche e ti volta le spalle.
La lucidita' e' impietosa: per questo e' insopportabile ai piu'.
Da adulto Lucianino conserva la freddezza e in cio' appare ancora piu' disumano.
Eppure in questo film, in questo universo gia' segnato, non sembra esserci scelta per nessuno.
Nessuno puo' scegliere di essere d'un tratto cio' che non potra' mai essere.
E, alla fine, come tragicamente e lucidamente osserva il Perozzi, non si sa chi tra i due sia il piu' "imbecille": se egli stesso, il padre, che prende tutta la vita come uno scherzo oppure suo figlio, Lucianino, che prende la vita come una condanna.
Qui il pensiero del Perozzi e' lucidissimo: per questo decide di non togliersi piu' la maschera; per questo si condanna a pagliaccio perpetuo.

giovedì 29 aprile 2010

parole

Ondeggiare senza fine nella disfatta del Senso, farsi trasportare da essa senza piu' opporre resistenza...
Fregarsene di tutto...
Hai mai fallito?
Fallirai sinche' perseguirai un fine; se smetterai di inseguire come un cane affamato il fine quest'ultimo andra' in rovina da se' e insieme ad esso l'idea del fallimento che lo accompagna...
Cosa vuoi?
Smettila di volere perche' volere e' vano lottare per poche briciole di pane; e se davvero sei cosi' folle da lottare per qualcosa non commettere l'ulteriore follia di addolorarti se non l'otterrai.
Cerca di essere felice e non farti derubare dell'unica cosa al mondo che e' impossibile toglierti con la forza : la tua intelligenza, la tua anima mortale.
Devi morire.
E venga pure la morte, non la sentirai nemmeno la sua presenza.
La morte di chi e' caro e' dura: ma il tempo lenisce la ferita e colma la lacuna.
Il dolore.
Soffrirai; ma nessuno ti lega a niente; nemmeno al dolore; e se te ne disfarrai non sarai biasimato.
Amore e odio non ti appartengono: sei tu che appartieni ad essi.
Sono tiranni che vogliono tutto; per questo bisogna tenerli a bada.
E nemmeno chi ti fa torto merita attenzione: e' polvere anche lui, e non vale la pena lottare con la polvere.
Ma sto parlando troppo: e ogni parola e' pur sempre aria, anche se scritta.
Ondeggia. E chiudi gli occhi...

mercoledì 28 aprile 2010

torbalinga

Uscivo con la meta del sesso e del mare.
Nel pomeriggio, quando la giornata era ancora calda e il traffico non ingorgava le vie, Aprilia appariva un deserto di cemento e crateri.
Percorrevo la Pontina con il finestrino abbassato.
La campagna, gli arbusti di vite e i pascoli mi consolavano, ricordandomi che quell'arteria immonda e fetida di smog non era l'unica realta', che ancora la nuda terra non era stata vinta dalle automobili e dal bitume.
Poi mi abbandonavo al piacere.
Era bello cambiare donna.
Facevo mio ogni centimetro di quei corpi.
Ogni collo, fianco, culo, vulva, seno, labbra, schiena, capello era mio.
Ognuno di quei corpi, di quelle ragazze, aveva una storia da raccontare.
E io le ascoltavo, con interesse.
Non erano le storie banali delle vere meretrici, quelle che in cambio del sesso si prendono senza pieta' l'anima e il conto in banca.
Spesso mentivano, cosi' mentivo pure io.
E si rideva insieme delle proprie fantasie.
A letto si e' re; nella vita sudditi o ribaldi; o a volte sudditi o a volte ribaldi.
E si oscilla tra il niente e il tutto, tra la noia e l'estasi.
A volte seguiva un appuntamento o una cena e ci si fingeva amanti.
Ci si lasciava teneramente, con un bacio sulle labbra, e poi, quasi sempre, non ci si rivedeva piu'.
Se ci si rivedeva era una festa e si brindava a quel ritrovarsi fortuito.
Con l'addome stanco ma pago mi dirigevo a Torvaianica.
Squarci di mare tra le case decadenti.
Squarci di malinconia e assoluto.
All'ora del tramonto giungevo.
Il tempo di un gelato e una passeggiata e mi posavo a contemplare la dipartita sublime dell'astro.
Qualche anziano col cane, qualche discreta coppia con una macchinetta fotografica.
E io, solo con la mia solitudine.
Il vento mi colpiva sul volto ma ero felice perche' sentivo ardere in me una forza indomita e invincibile.
Una volta gridai alla burrasca il nome di Lei, l'irraggiungibile.
Piansi. E il vento si porto' via le mie lacrime.
Era bello giocare con le forme gratuite della sera, in quella soave brezza mi appariva un destino libero e sensuale.
Senza alcun fine la vita si disvelava possibile.
Era riscoperta, sogno e speranza.
Scorsi una promessa tra le onde e infine ringraziai la notte.

lunedì 26 aprile 2010

folie circulaire

Da anni ormai i telegiornali raccontano, quasi ad ogni ora, quotidiane storie dell'orrore: cronaca nera la chiamano.
Questi bollettini dell'orrore battono qualsiasi perversa fantasia: i Dario Argento non devono inventarsi piu' nulla perche' ogni gesto e' gia' stato compiuto.
E non in condizioni di emergenza come in guerra o in carestia, ma in condizioni "normali", di discreto benessere economico e sociale.
L'interesse dei gionalisti e degli spettatori cade esclusivamente sopra i particolari raccapriccianti, mai sul perche' questi fatti avvengano.
Porsi il perche' e' inutile, non serve a niente; al piu' e' materia di psicologi o esperti del sociale.
Perche' certe persone, sino al giorno prima "normalissime", con una vita "normalissima", a un certo punto impazziscono, uccidendo gli altri o se stessi?
Cosa o chi li ha fatti impazzire?
La pigrizia mentale si lava le mani velocemente e liquida il problema scaricandolo sul piano clinico biologico: non sapendo rispondere si incolpa la natura. Per comodita'.
Qualcuno nasce con una rotella fuori posto. Cosa vuoi farci? Life goes on...
E il problema e' risolto.
Nessuno mai si domanda se questo impazzimento improvviso, fulminante, possa essere dovuto alla diffusa mentalita' che domina la maggioranza degli uomini contemporanei, alla societa' attuale, a questo tipo di societa', incentrata sull'accumulazione materiale, sull'apparenza, sull'esibizione e sulla parvenza della felicita'...
Incolpare la societa' e' come incolpare un fantasma...bisogna quindi incolpare tutti, compresi se' stessi.
Chi impazzisce reagisce a qualcosa che lo prevarica; e le nostre vite sono fondate sulla prevaricazione...basti pensare che il nostro "benessere" si fonda sulla prevaricazione e lo sfuttamento di milioni di esseri umani ...ma non bisogna andare lontano con gli esempi: anche il miserabile raccomandato prevarica nel suo piccolo gli altri...
Ci sarebbe quindi da stupirsi se padri di famiglia, ingannati sul loro futuro, sterminano moglie e figli e poi si tolgono la vita quando perdono il posto di lavoro?
Chi impazzisce ha ragione: e davanti al torto che gli e' stato reso da una societa' ipocrita, spietata e cinica vorrebbe trascinare l'intera realta' nella fossa insieme a lui.
Chi impazzisce ha sempre ragione: perche' la ragione, e con essa la speranza, lo hanno abbandonato.
Ma ne' la sorte ne' la natura lo hanno condannato: sono stati semplicemente gli altri, i "normali".
Cioe' noi.

techné

La tecnica moderna e la sua attuale ratio, la produzione economica, rivolgono una incessante pretesa nei riguardi del mondo non ancora "trasformato": la natura.
Questa pretesa potrebbe cosi' formularsi: "Tu, mondo grezzo, cosi' come sei non vai bene, sei inutilizzabile: per questo devo soggiogarti e trasformarti...per questo devo usarti violenza".
Questa pretesa e' diventata anche assoluta: non si accontenta di "pezzi" di mondo; lo vuole nella sua totalita'...un intero pianeta non gli basta.
Il classico homo faber si era limitato a impiegare porzioni di mondo per creare il suo proprio mondo, e vi aveva veduto il suo destino e la sua liberta'.
Cio' che non gli occorreva per il suo compito lo lasciava intatto.
Mentre l'uomo d'oggi, nel mondo preso nel suo insieme, non vede altro che materiale; intatto e inutilizzato; e vuole ad ogni costo "finirlo"... a guisa di merce, prodotto finito.
In questa ottica e' un pensiero addirittura insopportabile che ci siano avvenimenti che sorgano per nulla, si svolgano e svaniscano nel nulla, senza essere utilizzati, senza venir messi in circolazione, senza che nessuno ne approfitti.
In termini "tecno-ontologici" : cio' che solamente e', e' come se non fosse. Cio' che solamente e', e' sprecato. Se vuole essere, deve trasformarsi...
Eppure non di rado questa pretesa della tecnica di piegare tutto a se' viene costantemente sabotata, ogni tanto la natura si rivolta e distrugge con un soffio i tentativi di imprigionarla messi in atto dalla sfrenata ambizione umana...
La tecnica si illude. Puo' perdere.
Puo' annientare tutto con la bomba atomica. Ma puo' perdere.
La natura violentata risorge da ogni stupro con rinnovata verginita'...

sabato 24 aprile 2010

feticci

Ormai da tempo le cose, le merci sono diventate le nostre esclusive divinita'.
Senza di esse ci sentiamo perduti.
Chi non possiede un telefonino?
Chi puo' farne a meno?
Chi puo' fare a meno di internet o del computer?
Con un po' di onesta' intelletuale nessuno di noi puo' alzare la meno ed esclamare: "io!"
Anche se cio' pare una bazzecola, dipendiamo dalle cose, dalla tecnologia del consumo nella fattispecie; e chi orgogliosamente dichiara il contrario mente a se stesso, come chi sostiene che puo' smettere di fumare quando vuole.
Questa dipendenza naturalmente non e' affatto necessaria, come non lo e' il consumare.
Tuttavia ci e' stata inculcata con una tale forza e suggestione che il non consumare ci pare impossibile, se non innaturale.
La sottomissione dell'uomo alla cosa, al prodotto commerciale, e' evidente sopratutto nei giovani: basta fare una passeggiata in citta', in una qualsiasi citta' dell'occidente, per notare tristemente branchi uniformi di esseri umani, uniformi nei gesti, nel linguaggio, nel vestiario, nelle acconciature...e nel possesso indiscriminato del feticcio tecnologico di turno, esibito costantemente in pubblico quasi per dare una prova ontologica di se'...
Gli adulti non sono da meno e inseguono anch'essi con passione gli ultimi ritrovati tecnologici.
Basta guardarsi intorno: la pubblicita' e' ovunque, a cominciare dai nostri discorsi.
Siamo pervenuti dunque ad un'occupazione totale della vita sociale da parte delle merci.
Esse sono i nostri feticci.
Una volta a Campoleone, nei pressi della stazione ferroviaria, lessi una frase su un muro:
"La pubblicita' occupa ogni cosa e noi?"
Era vero. E' vero.
Tra le quattro mura di casa nostra ci sentiamo salvi, signori e padroni delle nostre scelte e della nostra realta'.
Eppure non e' cosi': perche' i feticci, le merci, sono gia' entrati in casa nostra. E sono entrati dentro di noi, nelle nostre anime. Ci possiedono nella misura in cui noi possediamo loro.
" Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso" (Guy Ernest Debord)

mercoledì 21 aprile 2010

fratres

"Homo sum, humani nihil a me alienum puto" (Publio Terenzio Afro)


Molto tempo e' passato da quando in preda ad un'eccitazione bestiale e mistica mi scagliavo sulle squallide vie del prenestino in cerca del piacere ambiguo.
L'ossessione dell'uomo medio, del conformista, si consuma e spegne solo sulla superficie, sulla pellicola delle cose, non arrischia mai di addentrarsi verso il proprio abisso, nella propria singolare verita'.
La verita' e' che in mezzo allo squallore piu' assoluto, in mezzo alle strade lordate da preservativi usati, ogni tanto mi capitava di incontrare un brandello di umanita' dimenticato dal mondo e ridotto a merce, un fratello perduto e caduto per sempre.
A volte al coito seguiva il dialogo schietto e cordiale, altre volte persino una fugace amicizia, come quella dei galeotti.
La verita' e' che, spesso, trovavo piu' conforto e calore in quei fratelli disperati e senza nome che nella indistinta massa dei "normali", a cominciare da quelle anonime figure che fanno chiamarsi amici.
Tornando a casa, di notte, a volte ero felice perche' avevo trovato un compagno di sventura e insieme, seppure per poco, avevamo messo a tacere le comuni solitudini, quella del niente piccolo borghese e quella del marciapiede buio.
Ero riconoscente a quei volti di donna perche' non avevano nulla di cui vergognarsi.
E il loro "mascherarsi" da donna era un gioco spontaneo e non immonda ipocrisia.
Chissa' dove siete fratelli perduti.
Accanto a voi, su quel laido marciapiede, ci sono anch'io.

sabato 17 aprile 2010

A nessuno

Rileggendo la tua lunga fino alla nausea e viscida eiaculazione di odio e improperi nei miei riguardi, non posso astenermi da due tristi riflessioni.
Primo: non hai compreso il senso della mia lettera.
Il motore che l'animava non era la rabbia, ma la nostalgia, la pieta'.
Ne' i brevi ritratti sono pagelle date a scolaretti capricciosi.
E questi scolaretti alla fine vengono promossi, non bocciati, come improvvidamente sostieni.
Anche qui il motore era la speranza, la personale speranza di vedere "progredire" cio' che ho di piu' prezioso.
Ma ancora una volta la tua smisurata vanita', la tua "nobilta' d'animo", fa capolino: il censore-narciso si drizza in piedi a difesa dell'ego:"Chi osa giudicarmi? chi osa parlare di me?"
Mi definisci un cane rabbioso che azzanna tutti: e' vero, quella sera lo fui.
Sbagliai. Pur avendo qualche attenuante.
Ma la ferocia del tuo linguaggio la dice lunga e mostra chiaramente chi tra noi due sia il vero teppista.
Il pavone vuole solo complimenti, mai critiche.
Definisci il mio blog un letamaio di frustrazione, un deserto dove non alberga una sola cosa intelligente.
Bene: accomodati pure altrove allora.
Non essere ipocrita: non comparire come sostenitore del blog.
Seconda riflessione piu' amara.
Nel vomito di porcherie che mi hai scagliato addosso, non ho visto salvezza alcuna.
Ne' uno scampolo di pieta' o perdono.
Stizza, freddezza, ripulsa assoluta.
Non si intravede nemmeno una possibilita' di recupero, una mano tesa, nonostante tutto.
Una sentenza di morte e egoismo.
Eppure io una mano, oltre a quella ad Amsterdam quando stavi per crepare, te l'ho sempre tesa.
Ma ho imparato che la tua ingratitudine e' seconda solo alla tua vanita'.
Questa amicizia, la nostra, e' morta da un pezzo.
Non so chi l'abbia uccisa.
Forse si e' spenta da se'; forse doveva andare cosi'.
Dobbiamo solo prenderne atto.
Ne' so cosa farmene di una parvenza di amicizia, di un'amicizia formale, affidata al caso e al conformismo.
Tu ora splendi da solo.
Non sei piu' quel triste buco nero che chissa' per quale ragione accompagnavo ad ubriacarsi qualche anno fa.
Tu stesso sostieni di non avere bisogno di nessuno. Buon per te.
Buono splendore. Da solo.

Comrade

Ennesima notte insonne.
Stavolta per colpa di Corrado.
Russa come un cinghiale.
Di questo passo faro' la fine di Cioran: nichilista per insonnia.
Mi guardo allo specchio. Sembro Nico Bellic.
Andiamo a fare colazione.
Tre omelette con cioccolato, un paio di ciambelline con zucchero a velo, due the'.
Nel ristorante entra una coppia con un bimbo di circa quattro anni.
Lui pare Elton John, un po' piu' basso.
Lei e' molto carina, bionda, snella, belle gambe. Sembra francese.
E' russa.
Il bambino e' biondo, ben sviluppato.
Nel quadretto stona solo Elton.
Ma la verita' e' che sono solo invidioso. Magari fosse mia la biondina.
Andiamo a mare.
Ripenso alla bella serata di ieri.
Al ristorante abbiamo preso un buon vino rosso egiziano.
Centocinquanta pound, probabilmente lo stipendio del cameriere che ce lo ha servito.
Corrado va materializzandosi sempre di piu' nella mia coscienza.
Il buon vino gli scioglie la lingua e amabilmente comincia a raccontare frammenti di vissuto.
Emerge un'uomo sincero e gagliardo.
A tredici anni progettava e costruiva veleggiatori, aereoplani di un metro e mezzo circa fatti di balsa, compensato e tiglio.
Li faceva volare dall'aeroporto di Catania, insieme ad altri appasionati.
Una volta la corrente si porto' via uno dei suoi aeroplani. Torno' a casa sconsolato.
Una settimana dopo lo chiamarono i Carabinieri di una sperduta localita' dell'Aspromonte e gli dissero che avevano trovato l'aeroplano. A pezzi naturalmente.
A Lipsia, diciassette gradi sottozero, doveva attraversare una landa ghiacciata di venti chilometri per tornare a casa dal cantiere.
Se la modesta opel fornita dal datore si fosse fermata, lo avrebbero trovato surgelato come un baccala'.
L'unico essere vivente che gli fece compagnia fu una piantina rampicante che teneva in casa.
La curo' con devozione e poi, a lavori conclusi, la porto' con se' in Sicilia. Per "riconoscenza"...
Corrado prosegue la carrellata di ricordi felici, esileranti...surreali.
Una sbronza -l'unica della sua vita- a suon di grappa della Valtellina. Faceva il militare.
Usci' dalla tenda per orinare e sprofondo' nella neve.
Amici, poi persi per strada, che scappavano dalla caserma, rischiando la famigerata "camera di rigore", per andare a fare l'amore con le fidanzate.
Una volta, da ragazzo, mentre faceva il bagno nel mare di Catania, la corrente lo fece finire a due chilometri di distanza. Riapparve qualche ora dopo quando gia' lo davano per morto.
Mi racconta dell'Eritrea.
In Turchia parte con un collega che ha la sventurata idea di portarsi dietro la moglie.
La poverina si allontana per recarsi alla toilette e dopo venti minuti la trovano svenuta nel bagno turco...aveva visto un topo.
Parliamo del Big crunch e dell'universo in espansione.
Concludiamo la serata passeggiando sulla sabbia.
La testa mi gira ancora.
Ma va bene cosi'.
Con mio padre accanto.







Ain Soukhna

Notte insonne e agitata.
Il vento fischia perennemente dagli infissi della stanza, dalle fessure delle finestre.
Un ululato con cui ho fatto quasi amicizia.
Mi sveglio verso le sei.
Sono nervoso.
La valanga di infami nefandezze vomitate da Dorian Grey mi soffoca.
Poi si e' aggiunto quel piccolo Hitler di La Russa su Anno Zero.
Devo reagire.
E reagisco.
Scrivo cio' che ho da scrivere.
Mi sento meglio.
Mi preparo un the' verde.
Hescham arriva puntuale alle nove.
Lascio tutto a casa, il diario, il libro, le pillole.
Dedichero' la giornata al mare. Ad Ain Soukhna.
Dopo due ore e un quarto di auto arriviamo.
Il posto e' rimasto lo stesso di sei mei fa... incantevole.
Scarichiamo la valigia e scendiamo a mare.
C'e' un gruppetto di cinesi.
Sono buffi. Scattano foto ad ogni peto di mosca.
Si divertono tra loro.
Giocano a insabbiare un amico mentre una ragazza li fotografa.
Mettono allegria.
Pensandoci non ho mai visto cinesi allegri dal vivo. Solo cinesi mesti.
Un altro si presenta sulla spiaggia con due mocassini marroni di pelle finta, calzini bianchi tirati sino al ginocchio...e costume da bagno blu. A torso nudo.
E bravi ragazzi...
Prendiamo un boccone al ristorante sulla spiaggia.
Ordiniamo due Kebab con riso basmati.
Un simpatico gatto arancione viene a strofinarsi sulle mie caviglie.
Si merita qualche pezzo di carne.
Tante famiglie, tanti "picciriddi".
Donne con veli sgargianti, altre ammantate di nero, tante belle ragazze rigorosamente con il costume intero.
Salvo qualche sporadica russa in bikini. Niente italiani, esclusi io e il vecchio.
La ricca borghesia araba sembra essersi data ritrovo qui, ad Ain Soukhna.
Gli uomini di mezza eta' sono quasi tutti obesi.
L'obesita' e' il tratto distintivo dell'opulenza in Egitto.
Accanto alla sdraio mi capitano due giovani coppie con figli.
Sono educati, parlano con tono basso. I bambini non strepitano.
Le ragazze sono molto belle.
Una e' bionda e riccia. L'altra e' mora, occhi scuri, un tripudio di sensualita'.
La bionda e la mora. Come quelle due simpaticone di Dora e Vero.
Il vecchio probabilmente dorme.
O forse pensa con gli occhi socchiusi.
O forse e' morto.
Due pagine di sudoku, una partita a mahjong sul computer, un sottofondo di musica classica e il gioco e' fatto.
Beato lui.
Ha fatto pace col mondo.
E' quasi un mese che scrivo sul blog e non ha letto manco una riga.
Chissa' a che pensa.
Chissa' se diventero' come lui.
Al suo posto spenderei i miei restanti giorni a vedere il mondo, quello che ancora non ha visto.
La grande muraglia, il gran canyon, la cascata del Niagara... qualche isola sperduta nel Pacifico.
Ma lui sembra pago cosi'.
Da quel suo dondolo che affaccia sulla costiera del Cilento aspettera' sereno la fine dei giorni.
Chissa', forse non ha torto.
Devo arrivarci io a settanta anni. Forse allora capiro'...
Ecco un grazioso cardellino sotto la palma.
Ha un piumaggio meraviglioso. Giallo, nero, bianco, marrone si fondono con armonia sul suo grazioso corpo.
Becca sulla sabbia in cerca di qualche formichina.
Sullo sfondo, verso il Sinai, qualche petroliera.
Ma il mare e' di un azzurro irresistibile. Un po' mosso.
Lo onorero' con un bel tuffo...

giovedì 15 aprile 2010

la rabbia

Se questo fosse stato e fosse il luogo della rabbia, come qualcuno superficialmente ha affermato, SOLO ed esclusivamente della rabbia, della delusione e del disincanto dello scrivente, le mie parole e i miei toni sarebbero stati altri; ontologicamente altri potrei dire.

Se in questo luogo regnasse unilaterale e incontrastata la rabbia, e non anche un tentativo di amore e di speranza verso me e gli altri, il mio sfogo, diretto e ad personam, sarebbe stato diverso: inauditamente apodittico e inappellabile...

Se questo fosse stato il luogo esclusivo della rabbia, avrei sputato la verita' in faccia ad una persona, la verita' non delle sterili parole e delle lunghe pantomime, ma quella dei fatti:

QUALCUNO E' STATO ASSENTE QUANDO AVREBBE DOVUTO ESSERCI:
QUESTA E' LA SUA COLPA, DI CUI NEMMENO SI VERGOGNA

Questo e' il Fatto che giace nudo sotto il sole.

Se questo fosse stato il luogo esclusivo della rabbia, avrei scritto che quella persona, con il suo disinteresse, ha dimostrato scarso valore di amico.

Che il suo rifugiarsi dietro le sottane degli "altri" e' pura vigliaccheria: perche' gli altri non c'entrano niente e il problema, il mio problema, non sono stati gli altri -presenti a tempo debito- bensi' e' stato lui; o meglio: la sua scandalosa assenza quando ce ne era di bisogno. E due sporadiche visite all'ospedale sono poca cosa.

Se questo fosse stato il luogo esclusivo della rabbia avrei schernito le piccole scuse e gli alibi infantili.

Avrei detto che e' risibile addurre una personale idiosincrasia alla tecnologia, al telefonino.
Perche' quando arriva il momento del coito, la tecnologia stranamente diventa amica; e qualcuno, ancora piu' stranamente, diventa vigile d'un tratto.

Avrei detto che le elezioni non sono un ostacolo che impedisce di andare a trovare un caro.
Per il coito invece non ci sono elezioni che tengano.

Amicizia vuol dire presenza, cura: con i fatti.


Se questo fosse stato il luogo esclusivo della rabbia, e la rabbia avesse detto l'ultima parola dentro di me, avrei cancellato quella persona dal novero dei cari.

Ma cio' non e' successo. Perche' questo luogo non e' il regno esclusivo della rabbia, come erroneamente crede qualcuno.


mercoledì 14 aprile 2010

tempi moderni

Idiosincrasia verso la macchina.

Premessa: tanti anni fa in una azienda che imbottiglia vino.
Il nastro trasportatore.
La catena di montaggio.
I calli sulle mani dopo mezza giornta.
La fronte che gronda di sudore.
Lo sforzo "innaturale" di mantenermi in sincronia con l'andatura troppo veloce della macchina.
Il rumore assordante e monotono delle bottiglie che cozzavano una contro l'altra.
"Perche'?"
"Che senso ha questo inferno?"
"E se l'inferno esistesse davvero, non sarebbe cosi'? Non sarebbe una condanna ad una catena di montaggio?"
Per fuggire da quell'inferno di macchine assordanti uscivo dallo stabilimento e mi sdraiavo sul gigantesco container dei rifiuti. Da li' finalmente vedevo il cielo...in mezzo ai rifiuti trovavo finalmente ristoro...

Considerazione viscerale: la macchina, la piu' disumana delle creazioni umane

L'uomo che Chaplin ha rappresentato in Tempi Moderni: l'essere che, persino quando non manovra piu' la sua macchina, esegue ancora, involontariamente e automaticamente, i movimenti che si addicono alla macchina, e che constata quindi sconcertato o terrorizzato di essere gia' divenuto un pezzo di meccanismo, questo essere chapliniano non esiste piu'...
La rappresentazione e' distorta.
La macchina ha preso il sopravvento. E' la macchina a condurre l'uomo.

Domanda: quale macchina? Il telefonino, il computer, la playstation, la smart?

Obiezione: sei folle. Queste"macchine", come tu le chiami da troglodita ottocentesco, si sono evolute, hanno migliorato la vita degli uomini, la hanno semplificata, de-fatigata...

Risposta: tutte...oppure, che e' la stessa cosa, la macchina in se', la macchina del regno delle idee, platonica...Il suo fondamento, la sua diabolica raison d'être, e' rimasta invariata dalla rivoluzione industriale sino ad oggi: asservire sempre di piu' l'uomo con il mito del progresso, del benessere, della felicita' ad ogni costo.

Risposta alla obiezione: queste macchine hanno semplificato la tua e mia di vita, di certo non ancora quella di un abitante del Bangladesh.
Ma a quale costo? Al costo di un' alienazione totale, di una progressiva dipendenza da esse al pari di uno stupefacente. Oltre ad uno strupro ecologico irreversibile.
Che tutto cio' sia "migliore" e' opinabile. Si tratta di un pregiudizio borghese, positivista.

Non lo vedete?
La dicotomia uomo-macchina e' scomparsa.
La macchina non vi terrorizza piu'...anzi, la adorate. Non possiamo farne a meno.
Non vedete che siamo diventati i meccanismi terminali delle macchine, i loro ingranaggi finali?

lunedì 12 aprile 2010

Electric brain: sull'apoteosi della macchina sull'uomo

Mentre oggi leggevo Anders mi sono imbattuto in un passo per cosi' dire "profetico".
La stessa cosa mi e' successa piu' volte con Pasolini.
Ma torniamo ad Anders, il cui libro e' del 1956. (Die Antiquiertheit des Menschen)
La parola chiave e' stata Electric brain, cervello elettronico.
A quei tempi la parola computer forse non era stata ancora coniata.
Si parlava di calcolatori, al piu' di robot calcolatori.
Il passo in questione si occupava di un generale americano, McArthur, che al principio del conflitto coreano propose della misure la cui esecuzione avrebbe potuto scatenare una terza guerra mondiale.
La decisione se si dovesse rischiare o meno tale conseguenza -secondo quanto riportato dallo scrittore- gli fu tolta dalle mani e affidata appunto ad un Electic brain.
Per fortuna dell'umanita' la "macchina-oracolo" emise un verdetto "sfavorevole" per l'opzione bellica (in termini di costi-benefici; immagino quali: vite umane e dollari) e fu evitata la catastrofe.
Questo per dire che (probabilmente) per la prima volta nella storia dell'uomo fu "trasferita la fonte della possibile clemenza" dall'uomo alla sua creatura, la macchina...
Ancora Anders: "l'avvenimento in se rappresenta al tempo stesso la sconfitta della massima portata storica che l'umanita' si sia mai inferta: PERCHE' MAI PRIMA SI ERA ABBASSATA AL PUNTO DI AFFIDARE A UN OGGETTO LA SENTENZA DA CUI DIPENDEVA LA SUA STORIA, forse anche il suo essere o non essere".
Insomma la decisione se cancellare o meno migliaia di vite umane venne affidata ad un calcolatore elettronico.

A questo punto, quasi di rimbalzo, la mia memoria ha collegato questo passo di Anders (e la parola "chiave": Electric brain) ad un libro che lessi una quindicina di anni fa e ad il suo autore: Frank Tipler.
Il libro si intitola : "La fisica dell'immortalità".
Tipler e' un fisico contemporaneo assertore della teoria fisica del Big Crunch.
Il libro e' ingegnoso. Ma propone secondo me una visione e una "scelta" raccapricciante, dove gli uomini, per diventare eterni (immortali) si affidano alle loro macchine piu' intelligenti : i computers; proprio come fecero gli americani nel caso McArthur.
Il massimo dell'alienazione che l'uomo avesse mai potuto concepire e desiderare per se stesso e' condensato in questa favola dell'orrore.
Perche' alienazione?
Perche' l'autore rinnega la vita organica, mortale ed irripetibile per osannare quella virtuale, riproducibile (secondo lui) all'infinito e non soggetta a corruzione fisica.
Sembra di scorgere la stessa ripulsa di San Paolo verso la carne...
La vita virtuale non ci riguarda PERCHE' NON SIAMO NOI A VIVERE, ma le macchine e i loro software al nostro posto.

Tipler:
La vita è iniziata da microrganismi, tre miliardi di anni fa, e si è espansa e
diversificata. Nessuna specie sopravvive indefinitamente: lo sapeva già Darwin. I nostri
discendenti saranno molto diversi da noi. Io li immagino come supercomputer, piuttosto
che come organismi. Il DNA non sopravvive alle alte temperature che ci saranno con la
contrazione dell'universo, mentre l'informazione può essere codificata in mille modi.


Con computer sufficientemente potenti, si potrebbe emulare la vita umana. Nel senso
di riprodurla esattamente, in maniera perfetta. I nostri discendenti ci riporteranno in vita
con l'emulazione, e non moriremo più. Ecco perché la cosa dovrebbe interessarci.


Perche' orrore?
Perche' l'idea di una macchina o un computer che emula alla perfezione (ammesso che cio' sia possibile) la mia esistenza, il mio volere, i miei desideri, la mia gioia, le mie idiosincrasie, mi mortifica, mi atterisce, insulta la mia singolarita'.
Che poi io saro' riprodotto ed emulato in eterno, non vedo come questo possa interessarmi dato che la mia vita e' questa, in questo corpo hic et nunc.


Termino citando ancora Anders, quasi volessi lanciare un monito...

"Ci si potrebbe immaginare una relazione teologica scritta nel 2000, che riferisse lo svolgimento degli eventi all'incirca come segue:

Poiche' non esisteva il demone o il dio marcionista che condannasse l'uomo a un'esistenza di macchina o che lo trasformasse in macchina, l'uomo invento' un tale dio; anzi ebbe persino l'ardire di attribuire a se stesso la parte di questo dio supplementare; ma se ne assunse la parte esclusivamente allo scopo di arrecarsi quel danno che non poteva farsi infliggere da altre divinita'. Si rese sovrano per potersi rendere schiavo in un modo nuovo".
(da: Die Antiquiertheit des Menschen )

domenica 11 aprile 2010

dust

Un ufficio polveroso e laido che pare una latrina.
Le porte non si chiudono.
Nel bagno manca l'acqua.
Mosche.
Il primo giorno appena arrivati abbiamo trovato dei simpatici escrementi di uccello sparsi per ogni dove.
Il volatile, bonta' sua, aveva avuto il tatto di non cacare sulle sedie.
La segretaria ammantata di nero ascolta tutto il giorno rognose cantilene alla radio.
Piu' di una volta ho provato l'impulso di alzarmi e andare ad ammazzarla.
Strangolarla educatamente e dolcemente e poi scagliare dalla finestra quella radio infernale.
Con mio padre lavorero' si e no un'ora e mezza.
Noia, noia, noia.
C'e' internet, cioe' il vano.
Facebook, la posta e le varie stronzate.
Bisogna aspettare le quattro.
Mi duole il sedere, le sedie sono dure e stracciate. E luride naturalmente.
Oggi ho dimenticato Anders a casa, mi avrebbe enormemente giovato a dare un senso a queste sterili ore.
Per "svagarci" un po' dopo il lavoro si va al Carrefur o all'IperOne, a comprare cibarie o qualche suppelletile di stampo europeo.
Poi a casa.
Verso le sette vado a correre.
Una citta' di 40 km quadrati a disposizione.
Beverly Hills si chiama. Adorabili copioni. Bravi pero'.
La citta' e' molto bella, immense rotatorie con prati all'inglese, viali nel verde, aiuole con meravigliosi fiori esotici di cui non conosco il nome e dai colori piu' vari e delicati: un concerto di viola , rosso, lilla', bianco, turchese, giallo...
Profumo di acacia e gelsomino. Bougainvillee. Basilico profumato che cresce spontaneo ad ogni angolo di verde...che spaghetti, che insalate!
Questi fiori, questi colori smorzano un po' la solitudine.
Ieri sera mentre correvo accompagnato da una leggera brezza calda, scorgo due donne da dietro, che correvano anche loro.
Tedesche o forse americane.
Una bionda e una castana, dai capelli corti.
Andatura elegante, magre, bel fisico.
Non posso non notare i bei culi, i fianchi, le gambe, le belle schiene.
Forse mie coetanee.
Istintivamente le desidero entrambe, vorrei prenderle entrambe, un amplesso in tre...succhiare la loro bella carne, i loro capelli, la loro pelle, i loro bei culi. Mi perdo in fantasie erotiche.
Quanto mi manca una donna!
Passo loro accanto e le supero.
Chissa' che volto hanno.
Quando ritorno le rivedo ma l'oscurita' serale e la discrezione mi impediscono di scorgere i loro lineamenti.
La bionda sembra davvero bella.
In cuor mio spero di incontrarla di nuovo, di fare amicizia.
Chissa'.
A letto qualche ora dopo. Non riesco a fare niente, gli occhi troppo stanchi per leggere.
Colpa del computer.
Mi giro nel letto nervoso.
Mi alzo e mi vado a fare una spremuta d'arancia. Mangio anche un pezzo di pane con marmellata di mirtillo.
Lingua e denti blu. Buffo. Sorrido e mi lavo i denti.
Mentre dormo sento arrivare un messaggio al cellulare.
Lo leggo questa mattina.
E' il B. Caro vecchio B.
Nauseato anche tu dai locali chic di Roma.
Tante belle fiche "ma niente di vero", per citare le tue parole.
Ancora il B. : "niente di vero, vorrei fuggire, lontano da tutti e da tutto il marciume che mi circonda, un'oasi perduta, non so...qualcosa di bello che da anni cerco ma non trovo...forse Cuba, o forse una montagnia ai confini del mondo...".
Che belle parole vecchio mio! Che profondita'!
E dire che qui, a torto forse, mi ritenevo il verme piu' infelice della terra...
E invece c'e' qualcuno, un amico, che soffre oltre a questo fottuto ego e bisogna consolarlo con qualche buona parola.
"Orsu' marinaio!"
"Qual'e' la rotta capitano?"
"Dritto innanzi, dietro le nere nubi...".
Non mollare il timone, la felicita' e' dietro i flutti e la tempesta...
Mio vecchio B....
E infine due parole per il mio "coach", Angelo.
Questo mi hai scritto stamattina: "Stringi i denti, NON GIUDICARE ma guarda le cose con interesse e meraviglia e ricorda che quella polvere e quella sabbia sono le stesse di Antonio e Cesare, altri uomini che avevano nel proprio destino il successo, esattamente come te...".
Grazie Angelo, grazie di cuore.
Se da quel letto d'ospedale, nella notte piu' buia della mia vita, avessi potuto vedere questo me stesso che oggi corre coraggioso e solitario tra le palme, il vento e la polvere del deserto in faccia, quanta fierezza avrei provato!
E' ora di correre. E chissa', quella bella ragazza bionda...

sabato 10 aprile 2010

della bella morte

«La morte non è la peggiore delle infermità, peggiore è il desiderio di morire e non poterlo consumare» (Sofocle)

Quando fui all'ospedale, ricoverato per l'infarto, ebbi una particolare esperienza, toccante, triste e raccapricciante allo stesso tempo.
La riflessione che ne segui' fu, ed e', credo, un punto d'approdo della mia "filosofia morale"; della mia personale visione etica.
Che io sia un sostenitore del suicidio, a tempo debito, e' cosa nota a tutti coloro che mi conoscono.
Il dramma in questo caso pero' non e' togliersi la vita, quanto quello di "aiutare" un altro, un nostro amico ad esempio, a cessare di vivere.
Il suicidio per mano altrui: la nostra nella fattispecie.
E' un dramma insuperabile che dilania la coscienza.
Davanti alla pietosa istanza del moribondo implorante la morte sembra che non abbiamo scelta se non quella di chiudere gli occhi e voltare il capo.
Finchè non tocchera' a noi implorare la morte e assistere alla ritirata dei nostri cari.
Oggi piu' che mai la morte deve essere respinta, ed e' respinta, ai limiti dell'assurdo: nell'infame territorio dell'agonia cioe'.
"Un tempo si moriva cosi'...": questo sento dire ai nostri vecchi, i cui vecchi se ne andavano a 50, 60 anni.
Quei vecchi, che morivano "cosi' ", non avevano tutti i diritti che abbiamo noi, ne' avevano una grande disponibilita' materiale ed economica.
Eppure, compararta alla nostra, la loro appare quasi una "bella morte": senza agonia cioe'.
Nel nostro assurdo tentativo di prolungare la vita a furia di pillole e ritrovati medico scientifici che arricchiscono i soliti noti, rendiamo i nostri corpi mere COSE, mera carne su cui sperimentare veleni e strumenti di tortura (cos'altro e' l'infernale sondino naso gastrico o il catetere uretrale per citare due esempi?).
Diventiamo carne, carne destinata all'atrocita' del dolore fisico; all'agonia appunto.
Atteriti dall'idea di crepare diventiamo misere cavie alla merce' degli speculatori farmaceutici e dei loro compagni di merenda: i medici.
E creperemo comunque: ma anziche' a 60 anni, come forse sarebbe giusto, a 90, ben intubati, trafitti da cento aghi e sondini, imprigionati nell'anticamera della bara: il letto d'ospedale.
I nostri rantoli di agonia, anonimi per ragioni di privacy, verranno uditi da tutti.
Ma tutti, medici, infermieri parenti, amici saranno sordi a quel rantolo.
Nessuno avra' pieta' di noi.
Il protocollo non ammette eccezioni.
Due pillole all'ora x, tre goccie all'ora y, un'iniezione all'ora z.
E se il rantolo continua a turbare le coscienze dei sani, lo si silenzia e neutralizza con l'ennesima iniezione.
E cosi' all'infinito, una ripetizione macchinale e cinica, fino a che il povero bastardo muore da se', la carne disfatta, la bava che cola in un rivolo, lo sguardo assente...
In questo meccanismo infernale nessuno e' innocente, nemmeno il "paziente": perche' -sino a che non conosce sulla propria pelle l'agonia procuratagli dai suoi simili, divenuti aguzzini- egli vuole vivere; e percio' e' disposto a sacrificare il suo corpo all'agonia.
E quando si rendera' conto dell'amara verita', sara' troppo tardi, perche' gli verra' negata da tutti quell'ultima forma di pieta' che ci vuole liberi davanti alla bestemmia del dolore.


"Vivo solo perché è in mio potere morire quando meglio mi sembrerà: senza l'idea del suicidio, mi sarei ucciso subito."
Emil Cioran, Sillogismi dell'amarezza, 1952