sabato 24 aprile 2010

feticci

Ormai da tempo le cose, le merci sono diventate le nostre esclusive divinita'.
Senza di esse ci sentiamo perduti.
Chi non possiede un telefonino?
Chi puo' farne a meno?
Chi puo' fare a meno di internet o del computer?
Con un po' di onesta' intelletuale nessuno di noi puo' alzare la meno ed esclamare: "io!"
Anche se cio' pare una bazzecola, dipendiamo dalle cose, dalla tecnologia del consumo nella fattispecie; e chi orgogliosamente dichiara il contrario mente a se stesso, come chi sostiene che puo' smettere di fumare quando vuole.
Questa dipendenza naturalmente non e' affatto necessaria, come non lo e' il consumare.
Tuttavia ci e' stata inculcata con una tale forza e suggestione che il non consumare ci pare impossibile, se non innaturale.
La sottomissione dell'uomo alla cosa, al prodotto commerciale, e' evidente sopratutto nei giovani: basta fare una passeggiata in citta', in una qualsiasi citta' dell'occidente, per notare tristemente branchi uniformi di esseri umani, uniformi nei gesti, nel linguaggio, nel vestiario, nelle acconciature...e nel possesso indiscriminato del feticcio tecnologico di turno, esibito costantemente in pubblico quasi per dare una prova ontologica di se'...
Gli adulti non sono da meno e inseguono anch'essi con passione gli ultimi ritrovati tecnologici.
Basta guardarsi intorno: la pubblicita' e' ovunque, a cominciare dai nostri discorsi.
Siamo pervenuti dunque ad un'occupazione totale della vita sociale da parte delle merci.
Esse sono i nostri feticci.
Una volta a Campoleone, nei pressi della stazione ferroviaria, lessi una frase su un muro:
"La pubblicita' occupa ogni cosa e noi?"
Era vero. E' vero.
Tra le quattro mura di casa nostra ci sentiamo salvi, signori e padroni delle nostre scelte e della nostra realta'.
Eppure non e' cosi': perche' i feticci, le merci, sono gia' entrati in casa nostra. E sono entrati dentro di noi, nelle nostre anime. Ci possiedono nella misura in cui noi possediamo loro.
" Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso" (Guy Ernest Debord)