giovedì 8 aprile 2010

il librofaccia

Facebook e' assolutamente vano: PER QUESTO e' indispensabile.
Una rincorsa all'accumulo di foto, corpi esibiti, sorrisi azzannanti e coatti.
La coazione al divertimento e' irresistibile: sei dentro, nel gorgo, anche se non hai un pc o non ti sei registrato.
Lo fara' qualcuno per te.
Se poi questo qualcuno non sei tu o non c'e', allora vuol dire che non esisti. O meglio: non esistere virtualmente, esibendo commenti banali e foto, vuol dire, presso la massa dei giovani, NON ESISTERE sul piano sociale.
Chi se ne fotte? E no, te ne devi fottere, perche' se non te ne fotti sei fottuto.
Sei una nullita' sociale.
Se non sei "visibile" non esisti.
Potrei obiettare, giusto per fare una profonda obiezione, che all'opposto, vivere sul piano virtuale significa dismettere di vivere realmente, sul piano sociale ed empirico.
Chi sta davanti un pc , per quanto belle siano le foto che condivide o le informazioni che apprende, NON VIVE, non fa esperienza diretta con la realta' e con le sensazioni che da essa sgorgano dando pienezza alla vita.
Il discorso ovviamente vale anche per la televisione.
Tutto cio' che e' virtuale e' PURA ALIENAZIONE, NON VITA, NON ESPERIENZA, NON SENSAZIONE; e' un surrogato di esperienza, di vita di sensazione/emozione.
E' come sognare, dove la mente agisce (ed in parte sente) senza il corpo.
Ma una mente senza corpo e' una miseria tale che e' preferibile il suicidio.
I giovani si vanno accontentando del surrogato; stare ore a guardare e inserire foto e' per loro piu' attraente che stare realmente insieme agli altri o dialogare o pensare o vivere una qualsivoglia esperienza.
Ed e' proprio cosi: perche' vogliono disperatamente scattare una foto su tutto, prima ancora di vivere quella data esperienza, per poterla mettere su facebook.
Tutto e' finalizzato a quella foto...tutti abbracciati e sorridenti, ANCORA PRIMA delle condizioni per abbracciarsi e sorridere, cioe' amarsi ed essere felici.
Immortalato l'attimo, costruito a tavolino da settimane, ecco la festa della vanita' e poi l'oblio.
E cosi' sfilano milioni di foto, quantita' senza anima, senza qualita' umana, solo carne e corpi, bei corpi falsificati sin dentro le viscere.
Foto, foto, foto, fino alla nausea.
Piu' si e' vuoti piu' si riempie il profilo di foto.
Il delirio di quantificazione riduce a niente ogni singola foto, inezia persa nel mare magnum delle immagini, una uguale all'altra, percio' inutile come l'altra, precedente o successiva.
Si scopre con amarezza che ogni foto rivela solo esibizione, vanita' e desiderio di commento ( "come sei bella", "che bella festa", "che fico"...).
Che poi dietro ad ogni foto ci sia anche amore o amicizia e' tutto da dimostrare attesa la rarita' di questi sentimenti.
E che dietro ad ogni foto ci sia davvero ANCHE un momento di condivisione di felicita' e' tutto da dimostrare, PERCHE' per il singolo cio' che conta e' esserci e non tanto stare bene con gli altri.
A questo punto, annichilito il valore e il significato della foto/immagine nell'accezione consumistica in atto, urge una riflessione.
Primo: non dovrebbero essere scattate foto se non all'insaputa del soggetto: perche' l'unica foto VERA, che dice il vero su di noi, e' quella scattata a nostra insaputa.
Prepararsi con un sorriso azzannante non testimonia della nostra felicita', anzi e' una impostura per definizione.
Nel sorridere poi le donne mentono spudoratamente: basta guardare una foto tra "amiche".
Non c'e' amicizia ne' amore: e' solo una gara a chi mette meglio in risalto le zanne piu' lucenti.
E si vede a occhio nudo: mai che una di queste "amiche" provi il pudore di sorridere senza assomigliare a una faina.
Antagonismo, competizione, una gara di "bellezza", solo questo.
Gli uomini del resto fanno ancora piu' pena: anche tra loro conta SOLO l'immagine del loro fisico e niente altro.
Palestrati, tatuati, tutti miserabili esibizionisti.
Piu' sei vuoto piu' estremizzi il corpo, rendendolo una cosa plasmabile alla merce' della moda del momento.
Seconda riflessione: una volta una semplice fotografia era tutto...uno scrigno di emozioni, ricordi, malinconia, speranza, energia.
Un soldato o un emigrante custodiva in una foto il suo tesoro piu' grande.
Si poteva morire in un attimo dilaniati in trincea, senza pieta', nel non senso piu' assoluto dell'esistenza.
Eppure quella foto dava davvero speranza, la speranza di tornare a casa dall'inferno.
Nelle situazioni piu' crudeli (guerra, prigionia, emarginazione sociale dovuta all'emigrazione) gli uomini e le donne per non impazzire si rivolgono a cio' che e' familiare, a coloro che ci hanno dato speranza e affetto.
Ogni lacrima di costoro e' benedetta.
Quando un essere umano, il piu' reietto della scala sociale, tirava fuori dal borsellino sgualcito la foto della moglie, della famiglia, dei figli, dimostrava un valore e un'umanita' oggi estinti dalla societa' della quantita' e del consumo.
Eppure gli ultimi della terra partono come un tempo, alla ricerca disperata di un po' di salvezza.
Forse in tasca o nel borsellino non hanno neanche una foto della persona cara.
Forse non hanno nemmeno un borsellino.
Non hanno piu' niente, non gli e' stato risparmiato nulla.
Nei loro volti e' riconoscibile questo svuotamento, questo nulla...
Invece noi, che abbiamo tutto, abbiamo perso noi stessi perche' avendo tutto non sappiamo piu' che farcene di noi stessi e dei nostri corpi.
Le nostre immagini sono piu' che sufficienti, vivono per noi, al posto nostro.
A noi non resta che vivere per esse.
I nostri corpi, le nostre azioni, madide di falsita', sono i loro servitori (delle immagini).
Un'ultima riflessione: davanti ad una foto di noi chiediamoci: cosa ho provato in quel momento? Ero felice? O e' solo delirio di quantificazione?