venerdì 30 aprile 2010

lucianino

Il figlio del Perozzi, Lucianino, non e' un mostro; ne' e' perfido, nel senso comune dei superficiali.
Lucianino e' solo lucido e freddo come la lama di un coltello.
E la lucidita' e' sempre spietata, perche' non antepone il dover essere del desiderio o della morale all'infima realta' dell'essere.
Ne' a Lucianino rimane altra scelta per non soccombere o diventare un pagliaccio come il padre e i suoi amici se non opporre la sua lucidita'.
E' la sua unica arma.
Perde umanita', per cosi' dire, per non perdere umanita'...
Cio' non produce il cinico ma il censore.
E i quattro geniali pagliacci, gli "amici miei", lungi dall'essere "umani", sanno bene che la speranza e' morta, che l'universo e' vuoto: e per questo lo riempiono con la loro volutta' e il loro sadismo.
Sadismo che colma la noia d'esistere, che scuote corpi gia' morti.
E davanti alla lucidita' di Lucianino anche il pagliaccio per eccellenza, Tognazzi nei panni del Conte Mascetti, deve cedere: e da' suo malgrado un dieci e lode all'analisi contenuta nel diario del ragazzino.
Lucianino non frigna ne' scalcia, come vorrebbero i pagliacci della superficie; la sua rivolta e' lucida come il bisturi; poche parole fredde e secche e ti volta le spalle.
La lucidita' e' impietosa: per questo e' insopportabile ai piu'.
Da adulto Lucianino conserva la freddezza e in cio' appare ancora piu' disumano.
Eppure in questo film, in questo universo gia' segnato, non sembra esserci scelta per nessuno.
Nessuno puo' scegliere di essere d'un tratto cio' che non potra' mai essere.
E, alla fine, come tragicamente e lucidamente osserva il Perozzi, non si sa chi tra i due sia il piu' "imbecille": se egli stesso, il padre, che prende tutta la vita come uno scherzo oppure suo figlio, Lucianino, che prende la vita come una condanna.
Qui il pensiero del Perozzi e' lucidissimo: per questo decide di non togliersi piu' la maschera; per questo si condanna a pagliaccio perpetuo.

giovedì 29 aprile 2010

parole

Ondeggiare senza fine nella disfatta del Senso, farsi trasportare da essa senza piu' opporre resistenza...
Fregarsene di tutto...
Hai mai fallito?
Fallirai sinche' perseguirai un fine; se smetterai di inseguire come un cane affamato il fine quest'ultimo andra' in rovina da se' e insieme ad esso l'idea del fallimento che lo accompagna...
Cosa vuoi?
Smettila di volere perche' volere e' vano lottare per poche briciole di pane; e se davvero sei cosi' folle da lottare per qualcosa non commettere l'ulteriore follia di addolorarti se non l'otterrai.
Cerca di essere felice e non farti derubare dell'unica cosa al mondo che e' impossibile toglierti con la forza : la tua intelligenza, la tua anima mortale.
Devi morire.
E venga pure la morte, non la sentirai nemmeno la sua presenza.
La morte di chi e' caro e' dura: ma il tempo lenisce la ferita e colma la lacuna.
Il dolore.
Soffrirai; ma nessuno ti lega a niente; nemmeno al dolore; e se te ne disfarrai non sarai biasimato.
Amore e odio non ti appartengono: sei tu che appartieni ad essi.
Sono tiranni che vogliono tutto; per questo bisogna tenerli a bada.
E nemmeno chi ti fa torto merita attenzione: e' polvere anche lui, e non vale la pena lottare con la polvere.
Ma sto parlando troppo: e ogni parola e' pur sempre aria, anche se scritta.
Ondeggia. E chiudi gli occhi...

mercoledì 28 aprile 2010

torbalinga

Uscivo con la meta del sesso e del mare.
Nel pomeriggio, quando la giornata era ancora calda e il traffico non ingorgava le vie, Aprilia appariva un deserto di cemento e crateri.
Percorrevo la Pontina con il finestrino abbassato.
La campagna, gli arbusti di vite e i pascoli mi consolavano, ricordandomi che quell'arteria immonda e fetida di smog non era l'unica realta', che ancora la nuda terra non era stata vinta dalle automobili e dal bitume.
Poi mi abbandonavo al piacere.
Era bello cambiare donna.
Facevo mio ogni centimetro di quei corpi.
Ogni collo, fianco, culo, vulva, seno, labbra, schiena, capello era mio.
Ognuno di quei corpi, di quelle ragazze, aveva una storia da raccontare.
E io le ascoltavo, con interesse.
Non erano le storie banali delle vere meretrici, quelle che in cambio del sesso si prendono senza pieta' l'anima e il conto in banca.
Spesso mentivano, cosi' mentivo pure io.
E si rideva insieme delle proprie fantasie.
A letto si e' re; nella vita sudditi o ribaldi; o a volte sudditi o a volte ribaldi.
E si oscilla tra il niente e il tutto, tra la noia e l'estasi.
A volte seguiva un appuntamento o una cena e ci si fingeva amanti.
Ci si lasciava teneramente, con un bacio sulle labbra, e poi, quasi sempre, non ci si rivedeva piu'.
Se ci si rivedeva era una festa e si brindava a quel ritrovarsi fortuito.
Con l'addome stanco ma pago mi dirigevo a Torvaianica.
Squarci di mare tra le case decadenti.
Squarci di malinconia e assoluto.
All'ora del tramonto giungevo.
Il tempo di un gelato e una passeggiata e mi posavo a contemplare la dipartita sublime dell'astro.
Qualche anziano col cane, qualche discreta coppia con una macchinetta fotografica.
E io, solo con la mia solitudine.
Il vento mi colpiva sul volto ma ero felice perche' sentivo ardere in me una forza indomita e invincibile.
Una volta gridai alla burrasca il nome di Lei, l'irraggiungibile.
Piansi. E il vento si porto' via le mie lacrime.
Era bello giocare con le forme gratuite della sera, in quella soave brezza mi appariva un destino libero e sensuale.
Senza alcun fine la vita si disvelava possibile.
Era riscoperta, sogno e speranza.
Scorsi una promessa tra le onde e infine ringraziai la notte.

lunedì 26 aprile 2010

folie circulaire

Da anni ormai i telegiornali raccontano, quasi ad ogni ora, quotidiane storie dell'orrore: cronaca nera la chiamano.
Questi bollettini dell'orrore battono qualsiasi perversa fantasia: i Dario Argento non devono inventarsi piu' nulla perche' ogni gesto e' gia' stato compiuto.
E non in condizioni di emergenza come in guerra o in carestia, ma in condizioni "normali", di discreto benessere economico e sociale.
L'interesse dei gionalisti e degli spettatori cade esclusivamente sopra i particolari raccapriccianti, mai sul perche' questi fatti avvengano.
Porsi il perche' e' inutile, non serve a niente; al piu' e' materia di psicologi o esperti del sociale.
Perche' certe persone, sino al giorno prima "normalissime", con una vita "normalissima", a un certo punto impazziscono, uccidendo gli altri o se stessi?
Cosa o chi li ha fatti impazzire?
La pigrizia mentale si lava le mani velocemente e liquida il problema scaricandolo sul piano clinico biologico: non sapendo rispondere si incolpa la natura. Per comodita'.
Qualcuno nasce con una rotella fuori posto. Cosa vuoi farci? Life goes on...
E il problema e' risolto.
Nessuno mai si domanda se questo impazzimento improvviso, fulminante, possa essere dovuto alla diffusa mentalita' che domina la maggioranza degli uomini contemporanei, alla societa' attuale, a questo tipo di societa', incentrata sull'accumulazione materiale, sull'apparenza, sull'esibizione e sulla parvenza della felicita'...
Incolpare la societa' e' come incolpare un fantasma...bisogna quindi incolpare tutti, compresi se' stessi.
Chi impazzisce reagisce a qualcosa che lo prevarica; e le nostre vite sono fondate sulla prevaricazione...basti pensare che il nostro "benessere" si fonda sulla prevaricazione e lo sfuttamento di milioni di esseri umani ...ma non bisogna andare lontano con gli esempi: anche il miserabile raccomandato prevarica nel suo piccolo gli altri...
Ci sarebbe quindi da stupirsi se padri di famiglia, ingannati sul loro futuro, sterminano moglie e figli e poi si tolgono la vita quando perdono il posto di lavoro?
Chi impazzisce ha ragione: e davanti al torto che gli e' stato reso da una societa' ipocrita, spietata e cinica vorrebbe trascinare l'intera realta' nella fossa insieme a lui.
Chi impazzisce ha sempre ragione: perche' la ragione, e con essa la speranza, lo hanno abbandonato.
Ma ne' la sorte ne' la natura lo hanno condannato: sono stati semplicemente gli altri, i "normali".
Cioe' noi.

techné

La tecnica moderna e la sua attuale ratio, la produzione economica, rivolgono una incessante pretesa nei riguardi del mondo non ancora "trasformato": la natura.
Questa pretesa potrebbe cosi' formularsi: "Tu, mondo grezzo, cosi' come sei non vai bene, sei inutilizzabile: per questo devo soggiogarti e trasformarti...per questo devo usarti violenza".
Questa pretesa e' diventata anche assoluta: non si accontenta di "pezzi" di mondo; lo vuole nella sua totalita'...un intero pianeta non gli basta.
Il classico homo faber si era limitato a impiegare porzioni di mondo per creare il suo proprio mondo, e vi aveva veduto il suo destino e la sua liberta'.
Cio' che non gli occorreva per il suo compito lo lasciava intatto.
Mentre l'uomo d'oggi, nel mondo preso nel suo insieme, non vede altro che materiale; intatto e inutilizzato; e vuole ad ogni costo "finirlo"... a guisa di merce, prodotto finito.
In questa ottica e' un pensiero addirittura insopportabile che ci siano avvenimenti che sorgano per nulla, si svolgano e svaniscano nel nulla, senza essere utilizzati, senza venir messi in circolazione, senza che nessuno ne approfitti.
In termini "tecno-ontologici" : cio' che solamente e', e' come se non fosse. Cio' che solamente e', e' sprecato. Se vuole essere, deve trasformarsi...
Eppure non di rado questa pretesa della tecnica di piegare tutto a se' viene costantemente sabotata, ogni tanto la natura si rivolta e distrugge con un soffio i tentativi di imprigionarla messi in atto dalla sfrenata ambizione umana...
La tecnica si illude. Puo' perdere.
Puo' annientare tutto con la bomba atomica. Ma puo' perdere.
La natura violentata risorge da ogni stupro con rinnovata verginita'...

sabato 24 aprile 2010

feticci

Ormai da tempo le cose, le merci sono diventate le nostre esclusive divinita'.
Senza di esse ci sentiamo perduti.
Chi non possiede un telefonino?
Chi puo' farne a meno?
Chi puo' fare a meno di internet o del computer?
Con un po' di onesta' intelletuale nessuno di noi puo' alzare la meno ed esclamare: "io!"
Anche se cio' pare una bazzecola, dipendiamo dalle cose, dalla tecnologia del consumo nella fattispecie; e chi orgogliosamente dichiara il contrario mente a se stesso, come chi sostiene che puo' smettere di fumare quando vuole.
Questa dipendenza naturalmente non e' affatto necessaria, come non lo e' il consumare.
Tuttavia ci e' stata inculcata con una tale forza e suggestione che il non consumare ci pare impossibile, se non innaturale.
La sottomissione dell'uomo alla cosa, al prodotto commerciale, e' evidente sopratutto nei giovani: basta fare una passeggiata in citta', in una qualsiasi citta' dell'occidente, per notare tristemente branchi uniformi di esseri umani, uniformi nei gesti, nel linguaggio, nel vestiario, nelle acconciature...e nel possesso indiscriminato del feticcio tecnologico di turno, esibito costantemente in pubblico quasi per dare una prova ontologica di se'...
Gli adulti non sono da meno e inseguono anch'essi con passione gli ultimi ritrovati tecnologici.
Basta guardarsi intorno: la pubblicita' e' ovunque, a cominciare dai nostri discorsi.
Siamo pervenuti dunque ad un'occupazione totale della vita sociale da parte delle merci.
Esse sono i nostri feticci.
Una volta a Campoleone, nei pressi della stazione ferroviaria, lessi una frase su un muro:
"La pubblicita' occupa ogni cosa e noi?"
Era vero. E' vero.
Tra le quattro mura di casa nostra ci sentiamo salvi, signori e padroni delle nostre scelte e della nostra realta'.
Eppure non e' cosi': perche' i feticci, le merci, sono gia' entrati in casa nostra. E sono entrati dentro di noi, nelle nostre anime. Ci possiedono nella misura in cui noi possediamo loro.
" Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso" (Guy Ernest Debord)

mercoledì 21 aprile 2010

fratres

"Homo sum, humani nihil a me alienum puto" (Publio Terenzio Afro)


Molto tempo e' passato da quando in preda ad un'eccitazione bestiale e mistica mi scagliavo sulle squallide vie del prenestino in cerca del piacere ambiguo.
L'ossessione dell'uomo medio, del conformista, si consuma e spegne solo sulla superficie, sulla pellicola delle cose, non arrischia mai di addentrarsi verso il proprio abisso, nella propria singolare verita'.
La verita' e' che in mezzo allo squallore piu' assoluto, in mezzo alle strade lordate da preservativi usati, ogni tanto mi capitava di incontrare un brandello di umanita' dimenticato dal mondo e ridotto a merce, un fratello perduto e caduto per sempre.
A volte al coito seguiva il dialogo schietto e cordiale, altre volte persino una fugace amicizia, come quella dei galeotti.
La verita' e' che, spesso, trovavo piu' conforto e calore in quei fratelli disperati e senza nome che nella indistinta massa dei "normali", a cominciare da quelle anonime figure che fanno chiamarsi amici.
Tornando a casa, di notte, a volte ero felice perche' avevo trovato un compagno di sventura e insieme, seppure per poco, avevamo messo a tacere le comuni solitudini, quella del niente piccolo borghese e quella del marciapiede buio.
Ero riconoscente a quei volti di donna perche' non avevano nulla di cui vergognarsi.
E il loro "mascherarsi" da donna era un gioco spontaneo e non immonda ipocrisia.
Chissa' dove siete fratelli perduti.
Accanto a voi, su quel laido marciapiede, ci sono anch'io.

sabato 17 aprile 2010

A nessuno

Rileggendo la tua lunga fino alla nausea e viscida eiaculazione di odio e improperi nei miei riguardi, non posso astenermi da due tristi riflessioni.
Primo: non hai compreso il senso della mia lettera.
Il motore che l'animava non era la rabbia, ma la nostalgia, la pieta'.
Ne' i brevi ritratti sono pagelle date a scolaretti capricciosi.
E questi scolaretti alla fine vengono promossi, non bocciati, come improvvidamente sostieni.
Anche qui il motore era la speranza, la personale speranza di vedere "progredire" cio' che ho di piu' prezioso.
Ma ancora una volta la tua smisurata vanita', la tua "nobilta' d'animo", fa capolino: il censore-narciso si drizza in piedi a difesa dell'ego:"Chi osa giudicarmi? chi osa parlare di me?"
Mi definisci un cane rabbioso che azzanna tutti: e' vero, quella sera lo fui.
Sbagliai. Pur avendo qualche attenuante.
Ma la ferocia del tuo linguaggio la dice lunga e mostra chiaramente chi tra noi due sia il vero teppista.
Il pavone vuole solo complimenti, mai critiche.
Definisci il mio blog un letamaio di frustrazione, un deserto dove non alberga una sola cosa intelligente.
Bene: accomodati pure altrove allora.
Non essere ipocrita: non comparire come sostenitore del blog.
Seconda riflessione piu' amara.
Nel vomito di porcherie che mi hai scagliato addosso, non ho visto salvezza alcuna.
Ne' uno scampolo di pieta' o perdono.
Stizza, freddezza, ripulsa assoluta.
Non si intravede nemmeno una possibilita' di recupero, una mano tesa, nonostante tutto.
Una sentenza di morte e egoismo.
Eppure io una mano, oltre a quella ad Amsterdam quando stavi per crepare, te l'ho sempre tesa.
Ma ho imparato che la tua ingratitudine e' seconda solo alla tua vanita'.
Questa amicizia, la nostra, e' morta da un pezzo.
Non so chi l'abbia uccisa.
Forse si e' spenta da se'; forse doveva andare cosi'.
Dobbiamo solo prenderne atto.
Ne' so cosa farmene di una parvenza di amicizia, di un'amicizia formale, affidata al caso e al conformismo.
Tu ora splendi da solo.
Non sei piu' quel triste buco nero che chissa' per quale ragione accompagnavo ad ubriacarsi qualche anno fa.
Tu stesso sostieni di non avere bisogno di nessuno. Buon per te.
Buono splendore. Da solo.

Comrade

Ennesima notte insonne.
Stavolta per colpa di Corrado.
Russa come un cinghiale.
Di questo passo faro' la fine di Cioran: nichilista per insonnia.
Mi guardo allo specchio. Sembro Nico Bellic.
Andiamo a fare colazione.
Tre omelette con cioccolato, un paio di ciambelline con zucchero a velo, due the'.
Nel ristorante entra una coppia con un bimbo di circa quattro anni.
Lui pare Elton John, un po' piu' basso.
Lei e' molto carina, bionda, snella, belle gambe. Sembra francese.
E' russa.
Il bambino e' biondo, ben sviluppato.
Nel quadretto stona solo Elton.
Ma la verita' e' che sono solo invidioso. Magari fosse mia la biondina.
Andiamo a mare.
Ripenso alla bella serata di ieri.
Al ristorante abbiamo preso un buon vino rosso egiziano.
Centocinquanta pound, probabilmente lo stipendio del cameriere che ce lo ha servito.
Corrado va materializzandosi sempre di piu' nella mia coscienza.
Il buon vino gli scioglie la lingua e amabilmente comincia a raccontare frammenti di vissuto.
Emerge un'uomo sincero e gagliardo.
A tredici anni progettava e costruiva veleggiatori, aereoplani di un metro e mezzo circa fatti di balsa, compensato e tiglio.
Li faceva volare dall'aeroporto di Catania, insieme ad altri appasionati.
Una volta la corrente si porto' via uno dei suoi aeroplani. Torno' a casa sconsolato.
Una settimana dopo lo chiamarono i Carabinieri di una sperduta localita' dell'Aspromonte e gli dissero che avevano trovato l'aeroplano. A pezzi naturalmente.
A Lipsia, diciassette gradi sottozero, doveva attraversare una landa ghiacciata di venti chilometri per tornare a casa dal cantiere.
Se la modesta opel fornita dal datore si fosse fermata, lo avrebbero trovato surgelato come un baccala'.
L'unico essere vivente che gli fece compagnia fu una piantina rampicante che teneva in casa.
La curo' con devozione e poi, a lavori conclusi, la porto' con se' in Sicilia. Per "riconoscenza"...
Corrado prosegue la carrellata di ricordi felici, esileranti...surreali.
Una sbronza -l'unica della sua vita- a suon di grappa della Valtellina. Faceva il militare.
Usci' dalla tenda per orinare e sprofondo' nella neve.
Amici, poi persi per strada, che scappavano dalla caserma, rischiando la famigerata "camera di rigore", per andare a fare l'amore con le fidanzate.
Una volta, da ragazzo, mentre faceva il bagno nel mare di Catania, la corrente lo fece finire a due chilometri di distanza. Riapparve qualche ora dopo quando gia' lo davano per morto.
Mi racconta dell'Eritrea.
In Turchia parte con un collega che ha la sventurata idea di portarsi dietro la moglie.
La poverina si allontana per recarsi alla toilette e dopo venti minuti la trovano svenuta nel bagno turco...aveva visto un topo.
Parliamo del Big crunch e dell'universo in espansione.
Concludiamo la serata passeggiando sulla sabbia.
La testa mi gira ancora.
Ma va bene cosi'.
Con mio padre accanto.







Ain Soukhna

Notte insonne e agitata.
Il vento fischia perennemente dagli infissi della stanza, dalle fessure delle finestre.
Un ululato con cui ho fatto quasi amicizia.
Mi sveglio verso le sei.
Sono nervoso.
La valanga di infami nefandezze vomitate da Dorian Grey mi soffoca.
Poi si e' aggiunto quel piccolo Hitler di La Russa su Anno Zero.
Devo reagire.
E reagisco.
Scrivo cio' che ho da scrivere.
Mi sento meglio.
Mi preparo un the' verde.
Hescham arriva puntuale alle nove.
Lascio tutto a casa, il diario, il libro, le pillole.
Dedichero' la giornata al mare. Ad Ain Soukhna.
Dopo due ore e un quarto di auto arriviamo.
Il posto e' rimasto lo stesso di sei mei fa... incantevole.
Scarichiamo la valigia e scendiamo a mare.
C'e' un gruppetto di cinesi.
Sono buffi. Scattano foto ad ogni peto di mosca.
Si divertono tra loro.
Giocano a insabbiare un amico mentre una ragazza li fotografa.
Mettono allegria.
Pensandoci non ho mai visto cinesi allegri dal vivo. Solo cinesi mesti.
Un altro si presenta sulla spiaggia con due mocassini marroni di pelle finta, calzini bianchi tirati sino al ginocchio...e costume da bagno blu. A torso nudo.
E bravi ragazzi...
Prendiamo un boccone al ristorante sulla spiaggia.
Ordiniamo due Kebab con riso basmati.
Un simpatico gatto arancione viene a strofinarsi sulle mie caviglie.
Si merita qualche pezzo di carne.
Tante famiglie, tanti "picciriddi".
Donne con veli sgargianti, altre ammantate di nero, tante belle ragazze rigorosamente con il costume intero.
Salvo qualche sporadica russa in bikini. Niente italiani, esclusi io e il vecchio.
La ricca borghesia araba sembra essersi data ritrovo qui, ad Ain Soukhna.
Gli uomini di mezza eta' sono quasi tutti obesi.
L'obesita' e' il tratto distintivo dell'opulenza in Egitto.
Accanto alla sdraio mi capitano due giovani coppie con figli.
Sono educati, parlano con tono basso. I bambini non strepitano.
Le ragazze sono molto belle.
Una e' bionda e riccia. L'altra e' mora, occhi scuri, un tripudio di sensualita'.
La bionda e la mora. Come quelle due simpaticone di Dora e Vero.
Il vecchio probabilmente dorme.
O forse pensa con gli occhi socchiusi.
O forse e' morto.
Due pagine di sudoku, una partita a mahjong sul computer, un sottofondo di musica classica e il gioco e' fatto.
Beato lui.
Ha fatto pace col mondo.
E' quasi un mese che scrivo sul blog e non ha letto manco una riga.
Chissa' a che pensa.
Chissa' se diventero' come lui.
Al suo posto spenderei i miei restanti giorni a vedere il mondo, quello che ancora non ha visto.
La grande muraglia, il gran canyon, la cascata del Niagara... qualche isola sperduta nel Pacifico.
Ma lui sembra pago cosi'.
Da quel suo dondolo che affaccia sulla costiera del Cilento aspettera' sereno la fine dei giorni.
Chissa', forse non ha torto.
Devo arrivarci io a settanta anni. Forse allora capiro'...
Ecco un grazioso cardellino sotto la palma.
Ha un piumaggio meraviglioso. Giallo, nero, bianco, marrone si fondono con armonia sul suo grazioso corpo.
Becca sulla sabbia in cerca di qualche formichina.
Sullo sfondo, verso il Sinai, qualche petroliera.
Ma il mare e' di un azzurro irresistibile. Un po' mosso.
Lo onorero' con un bel tuffo...

giovedì 15 aprile 2010

la rabbia

Se questo fosse stato e fosse il luogo della rabbia, come qualcuno superficialmente ha affermato, SOLO ed esclusivamente della rabbia, della delusione e del disincanto dello scrivente, le mie parole e i miei toni sarebbero stati altri; ontologicamente altri potrei dire.

Se in questo luogo regnasse unilaterale e incontrastata la rabbia, e non anche un tentativo di amore e di speranza verso me e gli altri, il mio sfogo, diretto e ad personam, sarebbe stato diverso: inauditamente apodittico e inappellabile...

Se questo fosse stato il luogo esclusivo della rabbia, avrei sputato la verita' in faccia ad una persona, la verita' non delle sterili parole e delle lunghe pantomime, ma quella dei fatti:

QUALCUNO E' STATO ASSENTE QUANDO AVREBBE DOVUTO ESSERCI:
QUESTA E' LA SUA COLPA, DI CUI NEMMENO SI VERGOGNA

Questo e' il Fatto che giace nudo sotto il sole.

Se questo fosse stato il luogo esclusivo della rabbia, avrei scritto che quella persona, con il suo disinteresse, ha dimostrato scarso valore di amico.

Che il suo rifugiarsi dietro le sottane degli "altri" e' pura vigliaccheria: perche' gli altri non c'entrano niente e il problema, il mio problema, non sono stati gli altri -presenti a tempo debito- bensi' e' stato lui; o meglio: la sua scandalosa assenza quando ce ne era di bisogno. E due sporadiche visite all'ospedale sono poca cosa.

Se questo fosse stato il luogo esclusivo della rabbia avrei schernito le piccole scuse e gli alibi infantili.

Avrei detto che e' risibile addurre una personale idiosincrasia alla tecnologia, al telefonino.
Perche' quando arriva il momento del coito, la tecnologia stranamente diventa amica; e qualcuno, ancora piu' stranamente, diventa vigile d'un tratto.

Avrei detto che le elezioni non sono un ostacolo che impedisce di andare a trovare un caro.
Per il coito invece non ci sono elezioni che tengano.

Amicizia vuol dire presenza, cura: con i fatti.


Se questo fosse stato il luogo esclusivo della rabbia, e la rabbia avesse detto l'ultima parola dentro di me, avrei cancellato quella persona dal novero dei cari.

Ma cio' non e' successo. Perche' questo luogo non e' il regno esclusivo della rabbia, come erroneamente crede qualcuno.


mercoledì 14 aprile 2010

tempi moderni

Idiosincrasia verso la macchina.

Premessa: tanti anni fa in una azienda che imbottiglia vino.
Il nastro trasportatore.
La catena di montaggio.
I calli sulle mani dopo mezza giornta.
La fronte che gronda di sudore.
Lo sforzo "innaturale" di mantenermi in sincronia con l'andatura troppo veloce della macchina.
Il rumore assordante e monotono delle bottiglie che cozzavano una contro l'altra.
"Perche'?"
"Che senso ha questo inferno?"
"E se l'inferno esistesse davvero, non sarebbe cosi'? Non sarebbe una condanna ad una catena di montaggio?"
Per fuggire da quell'inferno di macchine assordanti uscivo dallo stabilimento e mi sdraiavo sul gigantesco container dei rifiuti. Da li' finalmente vedevo il cielo...in mezzo ai rifiuti trovavo finalmente ristoro...

Considerazione viscerale: la macchina, la piu' disumana delle creazioni umane

L'uomo che Chaplin ha rappresentato in Tempi Moderni: l'essere che, persino quando non manovra piu' la sua macchina, esegue ancora, involontariamente e automaticamente, i movimenti che si addicono alla macchina, e che constata quindi sconcertato o terrorizzato di essere gia' divenuto un pezzo di meccanismo, questo essere chapliniano non esiste piu'...
La rappresentazione e' distorta.
La macchina ha preso il sopravvento. E' la macchina a condurre l'uomo.

Domanda: quale macchina? Il telefonino, il computer, la playstation, la smart?

Obiezione: sei folle. Queste"macchine", come tu le chiami da troglodita ottocentesco, si sono evolute, hanno migliorato la vita degli uomini, la hanno semplificata, de-fatigata...

Risposta: tutte...oppure, che e' la stessa cosa, la macchina in se', la macchina del regno delle idee, platonica...Il suo fondamento, la sua diabolica raison d'être, e' rimasta invariata dalla rivoluzione industriale sino ad oggi: asservire sempre di piu' l'uomo con il mito del progresso, del benessere, della felicita' ad ogni costo.

Risposta alla obiezione: queste macchine hanno semplificato la tua e mia di vita, di certo non ancora quella di un abitante del Bangladesh.
Ma a quale costo? Al costo di un' alienazione totale, di una progressiva dipendenza da esse al pari di uno stupefacente. Oltre ad uno strupro ecologico irreversibile.
Che tutto cio' sia "migliore" e' opinabile. Si tratta di un pregiudizio borghese, positivista.

Non lo vedete?
La dicotomia uomo-macchina e' scomparsa.
La macchina non vi terrorizza piu'...anzi, la adorate. Non possiamo farne a meno.
Non vedete che siamo diventati i meccanismi terminali delle macchine, i loro ingranaggi finali?

lunedì 12 aprile 2010

Electric brain: sull'apoteosi della macchina sull'uomo

Mentre oggi leggevo Anders mi sono imbattuto in un passo per cosi' dire "profetico".
La stessa cosa mi e' successa piu' volte con Pasolini.
Ma torniamo ad Anders, il cui libro e' del 1956. (Die Antiquiertheit des Menschen)
La parola chiave e' stata Electric brain, cervello elettronico.
A quei tempi la parola computer forse non era stata ancora coniata.
Si parlava di calcolatori, al piu' di robot calcolatori.
Il passo in questione si occupava di un generale americano, McArthur, che al principio del conflitto coreano propose della misure la cui esecuzione avrebbe potuto scatenare una terza guerra mondiale.
La decisione se si dovesse rischiare o meno tale conseguenza -secondo quanto riportato dallo scrittore- gli fu tolta dalle mani e affidata appunto ad un Electic brain.
Per fortuna dell'umanita' la "macchina-oracolo" emise un verdetto "sfavorevole" per l'opzione bellica (in termini di costi-benefici; immagino quali: vite umane e dollari) e fu evitata la catastrofe.
Questo per dire che (probabilmente) per la prima volta nella storia dell'uomo fu "trasferita la fonte della possibile clemenza" dall'uomo alla sua creatura, la macchina...
Ancora Anders: "l'avvenimento in se rappresenta al tempo stesso la sconfitta della massima portata storica che l'umanita' si sia mai inferta: PERCHE' MAI PRIMA SI ERA ABBASSATA AL PUNTO DI AFFIDARE A UN OGGETTO LA SENTENZA DA CUI DIPENDEVA LA SUA STORIA, forse anche il suo essere o non essere".
Insomma la decisione se cancellare o meno migliaia di vite umane venne affidata ad un calcolatore elettronico.

A questo punto, quasi di rimbalzo, la mia memoria ha collegato questo passo di Anders (e la parola "chiave": Electric brain) ad un libro che lessi una quindicina di anni fa e ad il suo autore: Frank Tipler.
Il libro si intitola : "La fisica dell'immortalità".
Tipler e' un fisico contemporaneo assertore della teoria fisica del Big Crunch.
Il libro e' ingegnoso. Ma propone secondo me una visione e una "scelta" raccapricciante, dove gli uomini, per diventare eterni (immortali) si affidano alle loro macchine piu' intelligenti : i computers; proprio come fecero gli americani nel caso McArthur.
Il massimo dell'alienazione che l'uomo avesse mai potuto concepire e desiderare per se stesso e' condensato in questa favola dell'orrore.
Perche' alienazione?
Perche' l'autore rinnega la vita organica, mortale ed irripetibile per osannare quella virtuale, riproducibile (secondo lui) all'infinito e non soggetta a corruzione fisica.
Sembra di scorgere la stessa ripulsa di San Paolo verso la carne...
La vita virtuale non ci riguarda PERCHE' NON SIAMO NOI A VIVERE, ma le macchine e i loro software al nostro posto.

Tipler:
La vita è iniziata da microrganismi, tre miliardi di anni fa, e si è espansa e
diversificata. Nessuna specie sopravvive indefinitamente: lo sapeva già Darwin. I nostri
discendenti saranno molto diversi da noi. Io li immagino come supercomputer, piuttosto
che come organismi. Il DNA non sopravvive alle alte temperature che ci saranno con la
contrazione dell'universo, mentre l'informazione può essere codificata in mille modi.


Con computer sufficientemente potenti, si potrebbe emulare la vita umana. Nel senso
di riprodurla esattamente, in maniera perfetta. I nostri discendenti ci riporteranno in vita
con l'emulazione, e non moriremo più. Ecco perché la cosa dovrebbe interessarci.


Perche' orrore?
Perche' l'idea di una macchina o un computer che emula alla perfezione (ammesso che cio' sia possibile) la mia esistenza, il mio volere, i miei desideri, la mia gioia, le mie idiosincrasie, mi mortifica, mi atterisce, insulta la mia singolarita'.
Che poi io saro' riprodotto ed emulato in eterno, non vedo come questo possa interessarmi dato che la mia vita e' questa, in questo corpo hic et nunc.


Termino citando ancora Anders, quasi volessi lanciare un monito...

"Ci si potrebbe immaginare una relazione teologica scritta nel 2000, che riferisse lo svolgimento degli eventi all'incirca come segue:

Poiche' non esisteva il demone o il dio marcionista che condannasse l'uomo a un'esistenza di macchina o che lo trasformasse in macchina, l'uomo invento' un tale dio; anzi ebbe persino l'ardire di attribuire a se stesso la parte di questo dio supplementare; ma se ne assunse la parte esclusivamente allo scopo di arrecarsi quel danno che non poteva farsi infliggere da altre divinita'. Si rese sovrano per potersi rendere schiavo in un modo nuovo".
(da: Die Antiquiertheit des Menschen )

domenica 11 aprile 2010

dust

Un ufficio polveroso e laido che pare una latrina.
Le porte non si chiudono.
Nel bagno manca l'acqua.
Mosche.
Il primo giorno appena arrivati abbiamo trovato dei simpatici escrementi di uccello sparsi per ogni dove.
Il volatile, bonta' sua, aveva avuto il tatto di non cacare sulle sedie.
La segretaria ammantata di nero ascolta tutto il giorno rognose cantilene alla radio.
Piu' di una volta ho provato l'impulso di alzarmi e andare ad ammazzarla.
Strangolarla educatamente e dolcemente e poi scagliare dalla finestra quella radio infernale.
Con mio padre lavorero' si e no un'ora e mezza.
Noia, noia, noia.
C'e' internet, cioe' il vano.
Facebook, la posta e le varie stronzate.
Bisogna aspettare le quattro.
Mi duole il sedere, le sedie sono dure e stracciate. E luride naturalmente.
Oggi ho dimenticato Anders a casa, mi avrebbe enormemente giovato a dare un senso a queste sterili ore.
Per "svagarci" un po' dopo il lavoro si va al Carrefur o all'IperOne, a comprare cibarie o qualche suppelletile di stampo europeo.
Poi a casa.
Verso le sette vado a correre.
Una citta' di 40 km quadrati a disposizione.
Beverly Hills si chiama. Adorabili copioni. Bravi pero'.
La citta' e' molto bella, immense rotatorie con prati all'inglese, viali nel verde, aiuole con meravigliosi fiori esotici di cui non conosco il nome e dai colori piu' vari e delicati: un concerto di viola , rosso, lilla', bianco, turchese, giallo...
Profumo di acacia e gelsomino. Bougainvillee. Basilico profumato che cresce spontaneo ad ogni angolo di verde...che spaghetti, che insalate!
Questi fiori, questi colori smorzano un po' la solitudine.
Ieri sera mentre correvo accompagnato da una leggera brezza calda, scorgo due donne da dietro, che correvano anche loro.
Tedesche o forse americane.
Una bionda e una castana, dai capelli corti.
Andatura elegante, magre, bel fisico.
Non posso non notare i bei culi, i fianchi, le gambe, le belle schiene.
Forse mie coetanee.
Istintivamente le desidero entrambe, vorrei prenderle entrambe, un amplesso in tre...succhiare la loro bella carne, i loro capelli, la loro pelle, i loro bei culi. Mi perdo in fantasie erotiche.
Quanto mi manca una donna!
Passo loro accanto e le supero.
Chissa' che volto hanno.
Quando ritorno le rivedo ma l'oscurita' serale e la discrezione mi impediscono di scorgere i loro lineamenti.
La bionda sembra davvero bella.
In cuor mio spero di incontrarla di nuovo, di fare amicizia.
Chissa'.
A letto qualche ora dopo. Non riesco a fare niente, gli occhi troppo stanchi per leggere.
Colpa del computer.
Mi giro nel letto nervoso.
Mi alzo e mi vado a fare una spremuta d'arancia. Mangio anche un pezzo di pane con marmellata di mirtillo.
Lingua e denti blu. Buffo. Sorrido e mi lavo i denti.
Mentre dormo sento arrivare un messaggio al cellulare.
Lo leggo questa mattina.
E' il B. Caro vecchio B.
Nauseato anche tu dai locali chic di Roma.
Tante belle fiche "ma niente di vero", per citare le tue parole.
Ancora il B. : "niente di vero, vorrei fuggire, lontano da tutti e da tutto il marciume che mi circonda, un'oasi perduta, non so...qualcosa di bello che da anni cerco ma non trovo...forse Cuba, o forse una montagnia ai confini del mondo...".
Che belle parole vecchio mio! Che profondita'!
E dire che qui, a torto forse, mi ritenevo il verme piu' infelice della terra...
E invece c'e' qualcuno, un amico, che soffre oltre a questo fottuto ego e bisogna consolarlo con qualche buona parola.
"Orsu' marinaio!"
"Qual'e' la rotta capitano?"
"Dritto innanzi, dietro le nere nubi...".
Non mollare il timone, la felicita' e' dietro i flutti e la tempesta...
Mio vecchio B....
E infine due parole per il mio "coach", Angelo.
Questo mi hai scritto stamattina: "Stringi i denti, NON GIUDICARE ma guarda le cose con interesse e meraviglia e ricorda che quella polvere e quella sabbia sono le stesse di Antonio e Cesare, altri uomini che avevano nel proprio destino il successo, esattamente come te...".
Grazie Angelo, grazie di cuore.
Se da quel letto d'ospedale, nella notte piu' buia della mia vita, avessi potuto vedere questo me stesso che oggi corre coraggioso e solitario tra le palme, il vento e la polvere del deserto in faccia, quanta fierezza avrei provato!
E' ora di correre. E chissa', quella bella ragazza bionda...

sabato 10 aprile 2010

della bella morte

«La morte non è la peggiore delle infermità, peggiore è il desiderio di morire e non poterlo consumare» (Sofocle)

Quando fui all'ospedale, ricoverato per l'infarto, ebbi una particolare esperienza, toccante, triste e raccapricciante allo stesso tempo.
La riflessione che ne segui' fu, ed e', credo, un punto d'approdo della mia "filosofia morale"; della mia personale visione etica.
Che io sia un sostenitore del suicidio, a tempo debito, e' cosa nota a tutti coloro che mi conoscono.
Il dramma in questo caso pero' non e' togliersi la vita, quanto quello di "aiutare" un altro, un nostro amico ad esempio, a cessare di vivere.
Il suicidio per mano altrui: la nostra nella fattispecie.
E' un dramma insuperabile che dilania la coscienza.
Davanti alla pietosa istanza del moribondo implorante la morte sembra che non abbiamo scelta se non quella di chiudere gli occhi e voltare il capo.
Finchè non tocchera' a noi implorare la morte e assistere alla ritirata dei nostri cari.
Oggi piu' che mai la morte deve essere respinta, ed e' respinta, ai limiti dell'assurdo: nell'infame territorio dell'agonia cioe'.
"Un tempo si moriva cosi'...": questo sento dire ai nostri vecchi, i cui vecchi se ne andavano a 50, 60 anni.
Quei vecchi, che morivano "cosi' ", non avevano tutti i diritti che abbiamo noi, ne' avevano una grande disponibilita' materiale ed economica.
Eppure, compararta alla nostra, la loro appare quasi una "bella morte": senza agonia cioe'.
Nel nostro assurdo tentativo di prolungare la vita a furia di pillole e ritrovati medico scientifici che arricchiscono i soliti noti, rendiamo i nostri corpi mere COSE, mera carne su cui sperimentare veleni e strumenti di tortura (cos'altro e' l'infernale sondino naso gastrico o il catetere uretrale per citare due esempi?).
Diventiamo carne, carne destinata all'atrocita' del dolore fisico; all'agonia appunto.
Atteriti dall'idea di crepare diventiamo misere cavie alla merce' degli speculatori farmaceutici e dei loro compagni di merenda: i medici.
E creperemo comunque: ma anziche' a 60 anni, come forse sarebbe giusto, a 90, ben intubati, trafitti da cento aghi e sondini, imprigionati nell'anticamera della bara: il letto d'ospedale.
I nostri rantoli di agonia, anonimi per ragioni di privacy, verranno uditi da tutti.
Ma tutti, medici, infermieri parenti, amici saranno sordi a quel rantolo.
Nessuno avra' pieta' di noi.
Il protocollo non ammette eccezioni.
Due pillole all'ora x, tre goccie all'ora y, un'iniezione all'ora z.
E se il rantolo continua a turbare le coscienze dei sani, lo si silenzia e neutralizza con l'ennesima iniezione.
E cosi' all'infinito, una ripetizione macchinale e cinica, fino a che il povero bastardo muore da se', la carne disfatta, la bava che cola in un rivolo, lo sguardo assente...
In questo meccanismo infernale nessuno e' innocente, nemmeno il "paziente": perche' -sino a che non conosce sulla propria pelle l'agonia procuratagli dai suoi simili, divenuti aguzzini- egli vuole vivere; e percio' e' disposto a sacrificare il suo corpo all'agonia.
E quando si rendera' conto dell'amara verita', sara' troppo tardi, perche' gli verra' negata da tutti quell'ultima forma di pieta' che ci vuole liberi davanti alla bestemmia del dolore.


"Vivo solo perché è in mio potere morire quando meglio mi sembrerà: senza l'idea del suicidio, mi sarei ucciso subito."
Emil Cioran, Sillogismi dell'amarezza, 1952

venerdì 9 aprile 2010

pro nihilo: ovvero contro Severino

Perche' la follia dell'annichilimento appare meno angosciante dell'eternita' dell'essere.

Condannato ad essere per sempre, crocifisso sull'altare della Verita', l'essente non ha scelta ne' liberta' ne' possibilita': deve essere e basta.
E deve essere cosi' come il cieco destino della necessita' lo vuole, senza scampo alcuno.
A questa Verita' insuperabile (chi ha letto Severino sa perche' uso la v maiuscola) lo spirito dell'uomo, l'errore accidentale nella storia dell'Occidente, non cessera' mai di ribellarsi.
E forse per questo l'errore non puo' fare a meno di perpetuare sé stesso all'infinito, perche' non accettera' mai la Verita' definitiva che lo consegna, ceppi alle mani e ai piedi, alla eterna prigione dell'essere e della sua necessita'.
Ma a questo punto non e' piu' lecito indugiare e bisogna porsi la domanda estrema: che COSA E' MEGLIO per l'uomo, la follia dell'annichilimento, l'errore e l'illusoria angoscia del divenire niente oppure l'assevimento alla Verita' dell'essere che lo salva si dalla morte e dal nulla, ma che proprio per questo lo incatena per sempre, come Zeus incateno' Prometeo, all'arida pietra dell'essere?
Che poi questa arida pietra dove verremo crocifissi sia per cio' stesso la GIOIA, Severino ancora deve dimostrarmelo...
E a questo punto, posta la domanda definitiva, urge una risposta anche essa definitiva.
E che l'uomo sembra aver risposto contro la Verita', per l'assurdo, per quell'angoscia impossibile che lo vuole un nulla, tutto questo, a me sembra un dato incontrovertibile.
Forse, e il forse e' d'obbligo, il destino dell'Occidente non e' la Verita', forse e' la follia, l'errore.
E forse gli uomini dell'Occidente sceglieranno consapevolmente la follia alla Verita' perche' quest'ultima non solo non da gioia, come non puo' dare gioia il guardarsi ad uno specchio per l'eternita', ma perche' tale Verita' e' persino piu' angosciante e violenta della follia che crede nel niente.
Cio' perche' la Verita' non da' scelta, imprigiona l'uomo sulla croce eterna che gli destina una necessita' cieca e crudele quanto quella del non senso e della sofferenza.
Nella follia all'uomo resta infatti un'ultima scelta, un'ultima via di scampo all'angoscia del non senso dell'esistenza: il suicidio, come liberta' dalla follia.
Nella Verita' invece non e' data liberta' e all'uomo non rimane che fissare le proprie catene per l'eternita': condizione questa che genera odio, repulsione e ribellione per la Verita'.
Per questo all'uomo non resta che votarsi per il nulla.
Perche' il Niente e' piu' liberatorio della Verita'

apud finem

Qualche giorno fa, in Italia. Dal mio diario.

Alzo il capo verso il sole e carpisco il calore che emana.
Da qui, dal tetto di casa, vedo il mare.
Qualche cane abbaia. Gli uccelli fanno un concerto.
Il fruscio del vento.
Niente auto, maledette auto.
Fosse ogni giorno cosi', come questo lunedi' di Pasqua.
Verso l'orizzonte una coltre spessa di nubi bluastre. Anzi, un'unica nube schiacciata lunga quanto l'orizzonte.
Finalmente l'uomo tace. Non lo sento. Sento tutto tranne la fastidiosa presenza degli uomini.
Una nube si addensa sopra di me togliendomi la luce e il calore del sole.
Ora fa freddo.
Maledico di non essere un pittore.
Sole e ombra, morte e vita.
Un balletto equilibrato.
Da un bel po' di anni quando mi sveglio penso alla stessa cosa, alla morte.
Giusto pochi istanti, il tempo di capire che non c'e' niente da capire.
Che e' cosi' e basta.
Vedo me stesso dall'esterno.
Vedo un adolescente impacciato e timido. Un essere umano ridicolo.
Poi vedo un uomo segnato ma che non si arrende.
I capelli grigi sulle tempie, lo sguardo di un dannato che ancora non si rassegna.
Piango spesso, mi commuovo davanti a tutto.
Perche' so che perdero' tutto.
E so che posso perdere tutto adesso, non fra trent'anni.
E' questo "adesso" il mio abisso.
E mi ci getto con furia.
Ai miei amici non posso far altro che parlare di amore.
Ma so bene che e' un fiore troppo raro, che non se ne puo' parlare impunemente.
Il mondo sfolgora nel mistero dei suoi colori.
Che la mia, la tua, la nostra vita sia un insignificante evento come un altro innanzi lo sguardo cieco del mondo, e' una realta' che pochi hanno il coraggio di ammettere.
La vita e' assurda, non ha senso.
Lo dimostra il fatto che se muori il mondo va avanti nell'assoluta indifferenza.
Che tu esista o non sia mai esistito niente cambia, e' assolutamente ininfluente.
Le piante continueranno a crescere e ad appassire.
L'onda del mare ritraccera' il segno di quella precedente.
Il percorso degli astri proseguira' imperterrito.
E cosi' per tutte le cose, nate solo per soccombere.
Tutto cessera', anche questo meraviglioso orizzonte.
Testimone di sublimi tramonti e compagno di silenziose lacrime.
Il bagliore trepidante di questo meriggio vale la mia intera vita.

seguito del breve ritratto: Dorian Fragion Grey

Stefano: teatrale e teatrante, non fa altro che recitare sul palcoscenico sociale.
Anche quando e' solo.
Chi non lo conosce pensa a una grande personalita'; chi lo conosce intuisce una magniloquente impostura.
Cosa c'e' dietro, cosa e' veramente Stefano?
Anelli da stregone hippy post-sessantottino, capelli neri fluenti da pellerossa, eloquio studiato, look da dandy straccione, molta appariscenza.
Bisogna andare oltre, oltre e piu' in fondo.
Bisogna entrare in una fetida sala giochi degli anni 90, alla ricerca di due geni disadattati.
Chi ha molto sofferto, molto deve trasfigurare; molto deve mentire; a cominciare da se stesso.
Molto deve ammantare nei panni di Narciso.
Trasfigurazione, studio e menzogna per non dire a noi stessi (e agli altri) quanto miserabili di pieta' verso noi stessi siamo.
Gli altri. Cosa sono gli altri per Stefano?
Nella gran parte dei casi (gli estranei) sono casualita' su cui far colpo con un eloquio ricercato.
Spettatori.
Gli amici sono gli spettatori con la poltrona di lusso: spettatori dal coito fraudolento.
E' bello calarsi nella parte. E' bello sentirsi finalmente importanti, riconosciuti.
Ma fino all'altro ieri io e te eravamo considerati, a torto, due nullita'.
Ora indossi la veste del vincitore.
E' gratificante, ma offende lo sguardo di chi ti conosce davvero, di chi ha conosciuto un ragazzo umile e geniale in una squallida sala giochi.
Quella maschera non ti appartiene. Non tradire te stesso.
E' gratificante sentire il telefonino che squilla invano alla nostra ricerca mentre lisciamo i capelli neri davanti lo specchio.
Finalmente siamo importanti.
Giustizia e' fatta. Da nullita' a divo.
Basta inscenare una parte.
E quel telefonino continua a squillare, un amico che ha avuto un infarto che cerca aiuto. Invano.
Le "coccole" non si fanno all'ultimo. E' troppo facile, comodo. E non e' giusto.
Tanti anni fa conobbi Stefano, un ragazzino dai capelli ispidi e neri.
Tu conoscesti Alessandro, un ragazzino esile con due spesse lenti da miope.
Non dimentichiamo chi siamo.
Cio' che seppelliamo continuera' a bussare dentro di noi.
Se non sentiremo piu' bussare, avra' vinto il narciso, l'attore, il divo, colui che e' giunto a rivalersi della vita.
Ma avremo ucciso e messo a tacere per sempre quei due adolescenti, quello dai capelli neri e ispidi e quello con gli occhiali da miope.
Avremo silenziato cio' che siamo.
E per questo, seppur vincitori agli occhi degli altri, avremo perso.
Avremo perso noi stessi.

v.

L'animale di prateria, inafferabile come la farfalla.
Falsa e inaffidabile, come l' husky.
La sua bellezza risiede in cio'.
Incrocio tra Venus e Artemide.
Ogni tanto si posa su un fiore, una spalla e succhia il nettare delle cose.
Parassitaria, contemplativa.
Guai a chi se ne innamora. Ha perso in partenza, come chi volesse raggiungere la Luna a piedi.
Chiaramente se dovesse essere lei ad amare o ad essere innamorata, la Luna è li', a portata di mano.
In lei risiede tutta la speranza del genere umano.
O meglio: l'idea della speranza. Della generazione, della bellezza, della felicita'.
Parla poco, quando lo fa sussurra.
Ma la bellezza e la felicita' sono da sempre irraggiungibili.
Ci sfiorano, al massimo ce ne accorgiamo solo dopo che ci sono passati accanto, fugaci.
Ci guardano e noi guardiamo loro, attoniti.
Ci guardano come fai tu, con quel sorriso benevolo e incantato.
E terminata l'estasi non ci resta che proseguire verso la Luna, consci nel profondo che non arriveremo mai.

breve ritratto dei miei amici

Dora : e' la donna per eccellenza, femminile , frivola e vanitosa.
Il mondo gira intorno a lei, tutto si pone rispetto a lei o come funzionale o indegno di interesse.
Davanti alla sua bellezza gli uomini devono prostarsi.
Vive per i complimenti, piu' ne riceve piu' e' felice.
E' l'alfa e l'omega della relazione.
E' anche l'incarnazione dello sfoggio, dell'ilarita' e della banalita'.
Tutte qualita' che in una donna mi eccitano enormemente...
Eppure, pur sapendo nell'istinto cosa vuole e ricerca (un uomo bello, ricco e potente, con una posizione sociale di riguardo) e' di una insicurezza sconcertante come chiunque non sappia decrifrare i segni e i comportamenti umani.
Se ci si affida esclusivamente all'immagine, essa sì rassicura ma al contempo mente; e infine delude.
Finchè resterai al livello dell'immagine sarai condannata all'eterna ricerca e delusione.
Potremo cambiare immagine, ma se non sapremo decifrarla e scomporla, e sopratutto, denudarla di tutti gli orpelli di cui e' rivestita, falliremo miseramente tutta la vita nella comprensione della realta'.
Conoscendoti meglio e stimolandoti meglio, mia cara, e' emerso un lato piu' profondo, piu' umano.
Solo lavorando su questo lato piu' profondo, meno frivolo, riscatterai come dovuto te stessa, la vera donna non piu' bambina capricciosa.
Comprenderai meglio gli altri, la realta' e avrai reso giustizia e omaggio a quella intelligenza sopita che indugia in ciascuno di noi.

giovedì 8 aprile 2010

il librofaccia

Facebook e' assolutamente vano: PER QUESTO e' indispensabile.
Una rincorsa all'accumulo di foto, corpi esibiti, sorrisi azzannanti e coatti.
La coazione al divertimento e' irresistibile: sei dentro, nel gorgo, anche se non hai un pc o non ti sei registrato.
Lo fara' qualcuno per te.
Se poi questo qualcuno non sei tu o non c'e', allora vuol dire che non esisti. O meglio: non esistere virtualmente, esibendo commenti banali e foto, vuol dire, presso la massa dei giovani, NON ESISTERE sul piano sociale.
Chi se ne fotte? E no, te ne devi fottere, perche' se non te ne fotti sei fottuto.
Sei una nullita' sociale.
Se non sei "visibile" non esisti.
Potrei obiettare, giusto per fare una profonda obiezione, che all'opposto, vivere sul piano virtuale significa dismettere di vivere realmente, sul piano sociale ed empirico.
Chi sta davanti un pc , per quanto belle siano le foto che condivide o le informazioni che apprende, NON VIVE, non fa esperienza diretta con la realta' e con le sensazioni che da essa sgorgano dando pienezza alla vita.
Il discorso ovviamente vale anche per la televisione.
Tutto cio' che e' virtuale e' PURA ALIENAZIONE, NON VITA, NON ESPERIENZA, NON SENSAZIONE; e' un surrogato di esperienza, di vita di sensazione/emozione.
E' come sognare, dove la mente agisce (ed in parte sente) senza il corpo.
Ma una mente senza corpo e' una miseria tale che e' preferibile il suicidio.
I giovani si vanno accontentando del surrogato; stare ore a guardare e inserire foto e' per loro piu' attraente che stare realmente insieme agli altri o dialogare o pensare o vivere una qualsivoglia esperienza.
Ed e' proprio cosi: perche' vogliono disperatamente scattare una foto su tutto, prima ancora di vivere quella data esperienza, per poterla mettere su facebook.
Tutto e' finalizzato a quella foto...tutti abbracciati e sorridenti, ANCORA PRIMA delle condizioni per abbracciarsi e sorridere, cioe' amarsi ed essere felici.
Immortalato l'attimo, costruito a tavolino da settimane, ecco la festa della vanita' e poi l'oblio.
E cosi' sfilano milioni di foto, quantita' senza anima, senza qualita' umana, solo carne e corpi, bei corpi falsificati sin dentro le viscere.
Foto, foto, foto, fino alla nausea.
Piu' si e' vuoti piu' si riempie il profilo di foto.
Il delirio di quantificazione riduce a niente ogni singola foto, inezia persa nel mare magnum delle immagini, una uguale all'altra, percio' inutile come l'altra, precedente o successiva.
Si scopre con amarezza che ogni foto rivela solo esibizione, vanita' e desiderio di commento ( "come sei bella", "che bella festa", "che fico"...).
Che poi dietro ad ogni foto ci sia anche amore o amicizia e' tutto da dimostrare attesa la rarita' di questi sentimenti.
E che dietro ad ogni foto ci sia davvero ANCHE un momento di condivisione di felicita' e' tutto da dimostrare, PERCHE' per il singolo cio' che conta e' esserci e non tanto stare bene con gli altri.
A questo punto, annichilito il valore e il significato della foto/immagine nell'accezione consumistica in atto, urge una riflessione.
Primo: non dovrebbero essere scattate foto se non all'insaputa del soggetto: perche' l'unica foto VERA, che dice il vero su di noi, e' quella scattata a nostra insaputa.
Prepararsi con un sorriso azzannante non testimonia della nostra felicita', anzi e' una impostura per definizione.
Nel sorridere poi le donne mentono spudoratamente: basta guardare una foto tra "amiche".
Non c'e' amicizia ne' amore: e' solo una gara a chi mette meglio in risalto le zanne piu' lucenti.
E si vede a occhio nudo: mai che una di queste "amiche" provi il pudore di sorridere senza assomigliare a una faina.
Antagonismo, competizione, una gara di "bellezza", solo questo.
Gli uomini del resto fanno ancora piu' pena: anche tra loro conta SOLO l'immagine del loro fisico e niente altro.
Palestrati, tatuati, tutti miserabili esibizionisti.
Piu' sei vuoto piu' estremizzi il corpo, rendendolo una cosa plasmabile alla merce' della moda del momento.
Seconda riflessione: una volta una semplice fotografia era tutto...uno scrigno di emozioni, ricordi, malinconia, speranza, energia.
Un soldato o un emigrante custodiva in una foto il suo tesoro piu' grande.
Si poteva morire in un attimo dilaniati in trincea, senza pieta', nel non senso piu' assoluto dell'esistenza.
Eppure quella foto dava davvero speranza, la speranza di tornare a casa dall'inferno.
Nelle situazioni piu' crudeli (guerra, prigionia, emarginazione sociale dovuta all'emigrazione) gli uomini e le donne per non impazzire si rivolgono a cio' che e' familiare, a coloro che ci hanno dato speranza e affetto.
Ogni lacrima di costoro e' benedetta.
Quando un essere umano, il piu' reietto della scala sociale, tirava fuori dal borsellino sgualcito la foto della moglie, della famiglia, dei figli, dimostrava un valore e un'umanita' oggi estinti dalla societa' della quantita' e del consumo.
Eppure gli ultimi della terra partono come un tempo, alla ricerca disperata di un po' di salvezza.
Forse in tasca o nel borsellino non hanno neanche una foto della persona cara.
Forse non hanno nemmeno un borsellino.
Non hanno piu' niente, non gli e' stato risparmiato nulla.
Nei loro volti e' riconoscibile questo svuotamento, questo nulla...
Invece noi, che abbiamo tutto, abbiamo perso noi stessi perche' avendo tutto non sappiamo piu' che farcene di noi stessi e dei nostri corpi.
Le nostre immagini sono piu' che sufficienti, vivono per noi, al posto nostro.
A noi non resta che vivere per esse.
I nostri corpi, le nostre azioni, madide di falsita', sono i loro servitori (delle immagini).
Un'ultima riflessione: davanti ad una foto di noi chiediamoci: cosa ho provato in quel momento? Ero felice? O e' solo delirio di quantificazione?