sabato 10 aprile 2010

della bella morte

«La morte non è la peggiore delle infermità, peggiore è il desiderio di morire e non poterlo consumare» (Sofocle)

Quando fui all'ospedale, ricoverato per l'infarto, ebbi una particolare esperienza, toccante, triste e raccapricciante allo stesso tempo.
La riflessione che ne segui' fu, ed e', credo, un punto d'approdo della mia "filosofia morale"; della mia personale visione etica.
Che io sia un sostenitore del suicidio, a tempo debito, e' cosa nota a tutti coloro che mi conoscono.
Il dramma in questo caso pero' non e' togliersi la vita, quanto quello di "aiutare" un altro, un nostro amico ad esempio, a cessare di vivere.
Il suicidio per mano altrui: la nostra nella fattispecie.
E' un dramma insuperabile che dilania la coscienza.
Davanti alla pietosa istanza del moribondo implorante la morte sembra che non abbiamo scelta se non quella di chiudere gli occhi e voltare il capo.
Finchè non tocchera' a noi implorare la morte e assistere alla ritirata dei nostri cari.
Oggi piu' che mai la morte deve essere respinta, ed e' respinta, ai limiti dell'assurdo: nell'infame territorio dell'agonia cioe'.
"Un tempo si moriva cosi'...": questo sento dire ai nostri vecchi, i cui vecchi se ne andavano a 50, 60 anni.
Quei vecchi, che morivano "cosi' ", non avevano tutti i diritti che abbiamo noi, ne' avevano una grande disponibilita' materiale ed economica.
Eppure, compararta alla nostra, la loro appare quasi una "bella morte": senza agonia cioe'.
Nel nostro assurdo tentativo di prolungare la vita a furia di pillole e ritrovati medico scientifici che arricchiscono i soliti noti, rendiamo i nostri corpi mere COSE, mera carne su cui sperimentare veleni e strumenti di tortura (cos'altro e' l'infernale sondino naso gastrico o il catetere uretrale per citare due esempi?).
Diventiamo carne, carne destinata all'atrocita' del dolore fisico; all'agonia appunto.
Atteriti dall'idea di crepare diventiamo misere cavie alla merce' degli speculatori farmaceutici e dei loro compagni di merenda: i medici.
E creperemo comunque: ma anziche' a 60 anni, come forse sarebbe giusto, a 90, ben intubati, trafitti da cento aghi e sondini, imprigionati nell'anticamera della bara: il letto d'ospedale.
I nostri rantoli di agonia, anonimi per ragioni di privacy, verranno uditi da tutti.
Ma tutti, medici, infermieri parenti, amici saranno sordi a quel rantolo.
Nessuno avra' pieta' di noi.
Il protocollo non ammette eccezioni.
Due pillole all'ora x, tre goccie all'ora y, un'iniezione all'ora z.
E se il rantolo continua a turbare le coscienze dei sani, lo si silenzia e neutralizza con l'ennesima iniezione.
E cosi' all'infinito, una ripetizione macchinale e cinica, fino a che il povero bastardo muore da se', la carne disfatta, la bava che cola in un rivolo, lo sguardo assente...
In questo meccanismo infernale nessuno e' innocente, nemmeno il "paziente": perche' -sino a che non conosce sulla propria pelle l'agonia procuratagli dai suoi simili, divenuti aguzzini- egli vuole vivere; e percio' e' disposto a sacrificare il suo corpo all'agonia.
E quando si rendera' conto dell'amara verita', sara' troppo tardi, perche' gli verra' negata da tutti quell'ultima forma di pieta' che ci vuole liberi davanti alla bestemmia del dolore.


"Vivo solo perché è in mio potere morire quando meglio mi sembrerà: senza l'idea del suicidio, mi sarei ucciso subito."
Emil Cioran, Sillogismi dell'amarezza, 1952