giovedì 27 ottobre 2011

la iena

Le città invisibili di Italo Calvino si concludono con questa frase:
"L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui,
l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme.
Due modi ci sono per non soffrirne.
Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più.
Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui:
cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio."
Ebbene, questi due modi di mettersi in rapporto con l'inferno, non prevedono il caso di Valentino Paterbaldi.
Egli non appartiene certo alla maggioranza per così dire silenziosa (in realtà essa parla il linguaggio dei motori, dei telefonini e delle televisioni) che accetta l'inferno, ne fa parte e non lo riconosce più;
ma non appartiene però neanche all'élite fortunata che cerca nell'inferno qualcosa che non è inferno.
Anzi: Paterbaldi sa, prima di ogni altra cosa, che da sempre e per sempre non c'è altro che l'inferno.
Non si propone neanche nel modo più vago e generico (come Calvino) l'ipotesi che ci sia qualcosa al di fuori di esso.
Non si sogna neanche lontanamente che ci possa essere un modo, anche illusorio, di non soffrirne o almeno di ignorarlo.
E allora, cos'è che distingue Valentino Paterbaldi dalla maggioranza silenziosa?
E' chiaro, benchè terribile: egli accetta l'inferno, come la maggioranza silenziosa, ma al contrario
della maggioranza silenziosa non ne fa parte, e perciò lo riconosce.
Ecco delineata una condizione di "estraneamento"...
L'accettare un fatto per pura e semplice obiettività, e il non farne parte pur riconoscendolo,
costringe Valentino Paterbaldi ad avere con questo fatto un rapporto tragico di estraneità:
e che tuttavia, forse a causa di un inconsapevole istinto di sopravvivenza, riesce a tramutare in una, seppur provvisoria, soluzione irrisoria...
Quando la tragicità è ridotta ad essere così completamente priva di illusioni, non può che trasformarsi in comicità.
Visitatore-dannato dell'inferno, Valentino Paterbaldi, bruciandosi nel fuoco o dibattendosi nella pece bollente, osserva gli altri dannati: e, pur soffrendo in modo selvaggio, in questo suo osservarli li trova ridicoli.
Il suo ridente sguardo cadaverico si posa sopratutto sui dannati in qualche modo simili a lui,
appartenenti alla sua cerchia, alla sua specializzazione.
La loro irresistibile comicità di dannati non spinge però Paterbaldi nè a deriderli troppo nè ad avere qualche pietà.
Descrivendoli, egli concretizza semplicemente la propria condizione di "estraneità" :
la concretizza in una forma di distacco linguistico che è quasi filologico:
e decisamente filologico lo è nella sua veste di "finzione narrativa"...
Ma è ora di spiegare in parole povere di che si tratta.
Valentino Paterbaldi ha finto d'essere uno scrittore, armato di una erudizione spaventevole, capace di tutto e, nel tempo stesso, capace di semplificare tutto.
Decide di comporre una raccolta di scritti surreali, bizzarri, arrivando addirittura a inventare teorie, sistemi filosofici e teologici ancora più assurdi...il tutto con uno stile impersonale, neutro, da enciclopedista, in modo da risultare convincente, quasi scientifico...oppure, all'opposto, utilizzando toni perentori, indiscutibili, assolutistici, come volesse vendicarsi di qualcuno...
Questo procedere secernendo surrealismo con uno stile descrittorio-formalistico, enciclopedico
(alla Fourier per intenderci), gli provoca convulsioni che lo piegano in due dal ridere, mentre dagli occhi gli sgorgano copiose lacrime d'ilarità...
La composizione dogmatica, patetica, gli serve per riprendere fiato.
Ecco un motto di questo squilibrato:
"Anche la liberazione asservisce"

Valentino Paterbaldi non portò mai a compimento la sua opera.
Forse fu punito da un dio per aver troppo deriso il prossimo.
Morì di crepacuore, mentre sghignazzava come un pazzo.